Introduzione


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Il deserto sorge sul bilico dell’esistenza, nell’incrocio di luoghi presenti e passati, come un miraggio al confine di se stessi. Qui il luogo diventa un  ici o un  là-bas , un  « lieu où il n’y a lieu que de soulever des questions »[1],  ovvero un luogo dove ha luogo la domanda e vuoto soffia il suo nido, dove si sta in una camera depressurizzata dell’assenza, in cui  all’assenza di uno spazio e di un tempo propri e definiti corrisponde quella dell’io che si ritrova disgregato.

La sua vastità immensa risuona dell’eco infinita delle domande senza risposta: « d’où viens tu? L’espace lui même sans commencement ni fin parâit reprendre, parâit répandre la question »[2], che si ricompongono ad ogni nuova immagine che le scritture formano e riformano nel tempo, facendo del deserto un paesaggio mentale, un universo popolato da fantasmi che sfuggono alla razionalità ed un fertile terreno di  simbolizzazione che contraddice la sua etimologia.[3]

L’aspetto che vogliamo prendere in considerazione in questo lavoro concerne il modo particolare di percepire la spazialità del deserto nella scrittura e lo faremo basandoci su due romanzi della letteratura magrebina di lingua francese che rivelano un’emblematicità rispetto a questo spazio.

Vedremo come il deserto risulti essere lo spazio sospeso di un entre-deux che si manifesta nella tensione tra gli opposti e che genera e si genera in un cammino verso l’origine: un viaggio metaforico che diviene puro attraversamento del senso[4].

Ne Le désert sans détour e in Timimoun il deserto è lo spazio dell’eco delle domande e la cassa di risonanza del dolore del mondo, dell’io alla  ricerca di un senso nell’assenza di un luogo di significazione unitario per la letteratura magrebina che Rachid Boudjedra e Mohammed Dib sono chiamati a rappresentare. Se già il nome di « letteratura magrebina di lingua francese » contiene la contraddizione di una lingua non corrispondente alla terra da cui si genera, in che senso possiamo parlare di appartenenza letteraria? « L’appartenence culturelle, l’ensemble partagé de signes qui définit un nous, peut reposer sur une trop grande multiplicité de critères; ses références à des lieux de la terre se déploient sur plusieurs niveaux »[5].  Il Magreb come fulcro unificante tale da giustificare un settore particolare della letteratura francofona è quindi da considerare nella sua problematicità.

Gli scrittori riuniti sotto questa etichetta dal forte valore geografico e territoriale, vivono e scrivono tutta la dualità che Magreb e Francofonia portano in sé. Il doppio binario culturale e spaziale, il gioco di sponda tra Francia e paese natale, l’Algeria nel caso dei nostri scrittori,   tra lingua francese e lingua araba, tra pubblico francese e pubblico arabo, editoria francese ed editoria araba, si è rivelato nel tempo come un grande stimolatore creativo per la ricchezza della letteratura che ha prodotto. Ma allo stesso tempo, pur superato il trauma rispetto alla lingua considerata  ricettacolo sacro di “tutti quegli elementi esistenziali per i quali un individuo si riconosce parte di una comunità e acquisisce un’armonia tra il dire e l’essere[6]” in una visione positiva di plurilinguismo, la scrittura


magrebina nei suoi vasti interstizi spaziali rivela il conflitto e la dualità che il meccanismo binario su cui si fonda innesca.

All’interno di questa condizione della letteratura magrebina di lingua francese, alla quale Dib e Boudjedra appartengono a cominciare dallo spazio più che dalla lingua, vedremo come il deserto sia la manifestazione simbolica  della sospensione tra i  termini della dualità e lo spazio dell’infra espresso attraverso il testo liminale, « un vestibolo dove occorre sostare e riflettere, lo spazio tra le due rive fra le quali vive la letteratura magrebina ».[7]

Spesso definita come letteratura di frontiera o scrittura errante[8],  la letteratura magrebina di lingua francese fonda la sua dinamicità sulla traversata. A seconda dei periodi cambiano gli assi che ordinano le traversate, ma pian piano la traversata diviene la ricerca del senso in atto e il luogo dell’enunciazione romanzesca. L’attraversamento dello spazio non si limita ad assumere un valore  funzionale e narrativo (i luoghi in cui si svolge l’azione del romanzo, la sovrapposizione tra la mappa spaziale e la trama) ma si esprime anche su un piano simbolico proponendosi come un attraversamento del tempo e del senso. E’ qui che, nella scrittura, la soggettività intesa  nel senso più ampio del termine incontra la collettività ed intesse un dialogo con la cultura[9].

Charles Bonn definisce la scrittura magrebina emblematicamente écriture-traversée, una scrittura che si fonda cioè sull’attraversamento dei luoghi e delle culture in cui il riferimento certo al Magreb tende a nebulizzarsi e ad assentarsi come luogo di significazione.

“L’écriture-traversée du roman maghrébin va manifester de plus en plus souvent l’absence d’un lieu de signification. La traversée n’as plus d’arrivée et va devenir le lieu même de l’enonciation romanesque. Le texte sera non plus l’étiquette d’un lieu fixe pour sa lisibilité de l’extérieur, mais l’écriture errante (…) que souvent manifeste l’absurdité du concept même du roman maghrébin. C’est à dire d’une sorte d’assignation à résidence par leur étiquette, de textes errants dont la traversée est le seul lieu véritable, l’entre-deux la seule réalisation”. [10]

Gli scrittori magrebini spesso scrivono dall’occidente, da un Nord che li ha messi in  contatto con un deserto non geografico, il non luogo della desertificazione culturale contro il quale Nietzsche metteva in guardia sul finire del XIX° secolo. Per il filosofo tedesco il nucleo della sofferenza della modernità risiede nel grande vuoto ch’egli definisce “crescita del deserto” intesa come assentarsi del senso nei rapporti intessuti dalla civiltà. Per la scrittura magrebina questa situazione di vuoto e di assenza che caratterizza la cultura occidentale, diviene il terreno su cui poggia l’esperienza dell’esilio. Così l’occidente si configura come deserto del nord, spazio di estraniamento e della solitudine, dell’assenza e della lontananza, dello sradicamento dai luoghi, dalla lingua e dalla cultura di appartenenza : un vuoto che si radica su un altro vuoto.

Eppure il deserto vero esiste ed è proprio nella sua realtà che possiamo cercare quei legami « sensati » che intesse con la civiltà e l’immaginazione.

Se il deserto – come vedremo-  è il contrappunto necessario alla definizione del concetto di civiltà, nell’Algeria degli anni novanta insanguinata da una dilaniante guerra civile e in cui l’opera letteraria  è difficilmente separabile dall’attualità politica, quale ruolo ha il deserto  in una ridefinizione della civiltà? Ci sembra che esso possa essere il luogo in cui si realizza quella distanziazione  necessaria nella ricerca di un senso, quando l’orrore della realtà ne impedisce qualsiasi messa a fuoco e tende alla letteratura la trappola della banalizzazione.

Il confronto tra il deserto “reale” di Timimoun lungo un tragitto turistico in un preciso momento storico e il deserto “irreale” di Le désert sans détour, sospeso dalla geografia e dalla storia per farsi puro spazio della rappresentazione, ci permette di  avanzare l’ipotesi che il deserto rappresentato nella letteratura magrebina sia lo spazio della ricerca dell’io e dell’Altro, lo spazio in cui si realizza, nella tensione tra l’interno e l’esterno dell’io narrante, non solo il potenziale di differenza con se stessi e la ricerca del senso, nascosto nella sabbia e nelle variazioni della luce, ma anche una riflessione sul presente che appare e scompare tra memoria ed immaginazione.

In questo senso il deserto si fa operatore dell’ acquisizione di un’origine “impossibile” in una dinamica di entre-deux e, quale spazio della tensione tra gli opposti, tra l’io e la propria ombra[11], tra presente e passato,  si libera dalla circoscrizione di oggetto-simbolo, soggetto a mille rifrazioni, per farsi materia  dalla  quale la scrittura si genera e si rigenera.


CAPITOLO I

Tutti i deserti possibili

 

Dans l’excès et la déroute, du froid au chaud, dans le constant déchiffrement des vestiges et des traces, par le trouchement de la magie, par l’intercession du chaman, il est aisé de glisser, de désert en désert, dans le règne de la pierre et du sable. (..) dans l’immémorial de la trace, (…) le corps frissonne dans la mer de sable et de pierre, confiné au désert de l’appartement pour rêver de tous les désert du monde. Abdelwahab Meddeb, Tous les déserts du monde.


1.1 PROBLEMATICHE DI APPROCCIO AL DESERTO

1.1.1 Tra deserto geografico e deserto letterario.

“Il y a deux façon de parler du désert. Le décrire, en parler positivement: c’est la démarche scientifique ordinaire, avec ce qu’elle contient de solide rigueur, mais aussi de naiveté et de mal-dit, dans sa manière de rassurer auteur et lecteur par le catalogage des  données et des sentiments. Ou bien rechercher, selon une démarche plus paradoxale, ce qui suscite en nous l’attrait pour le désert, et quelle signification occupe cette perception du désert dans notre vision du monde. L’oeuvre de fiction est pour cette dernière approche le meilleur champ d’observation, même si elle n’est pas le seul lieu de production d’un discours sur le désert: notre image du désert se projette aussi de façon significative dans la production scientifique.”[12]

 

Il deserto è una regione caratterizzata dalla quasi totale assenza dell’acqua allo stato liquido, un fenomeno dovuto a fattori climatici e a meccanismi atmosferici quali la presenza di uno schermo montagnoso, la forte continentalità, la prossimità alle correnti oceaniche fredde, la posizione sotto uno dei due tropici. Sulla  grande diagonale di regioni aride che attraversa il Medioriente e l’Asia centrale, dall’Atlantico alla Cina si alternano deserti caldi tropicali a semi-deserti continentali spesso temperati o freddi. Su questa fascia si estende il più vasto spazio di terre aride senza interruzioni lungo tutta la larghezza del continente africano, dall’Atlantico al mar Rosso.


E’ il Sahara, il deserto caldo più esteso della Terra,  risultato di un’eccezionale combinazione di spazio e tempo dilatati rispetto alla normale percezione che abbiamo di queste due entità. Esso rappresenta un quarto della superficie dei deserti del globo: 4800 km da ovest a est  e  2000 km da nord a sud per una superficie complessiva di 8-9000 km². Lo spazio che occupa  questo deserto, la sua estensione, è seconda solo ad un altro deserto, quello Antartico, un deserto freddo dove l’acqua  è assente  per solidificazione e non per evaporazione come nei deserti caldi.  Le vaste cellule di alta pressione permanente  generano infatti venti caldi e secchi come l’harmattan, lo khamsin e lo scirocco che respingendo qualsiasi arrivo di aria umida stabiliscono un’esistenza brevissima dello stato di vapore dell’acqua. Nel deserto caldo l’acqua passa dallo stato liquido a quello di vapore con estrema rapidità obbligando la vita che  si adatta a queste condizioni ad un’ottimizzazione del brevissimo lasso di tempo che ha a disposizione. La considerazione di questo tempo breve di fronte  all’idea della durata millenaria dei processi geologici che hanno portato alla sua costituzione, mette in luce la convivenza dei contrasti che caratterizzano il deserto. La presenza di un continuo movimento fluttuante dei bordi è rivelatorio del suo carattere instabile ed esprime contemporaneamente l’idea di mutamento e di perennità. La differenziazione dei paesaggi, tra  i quali gli erg, i reg, gli hamada, evidenzia una varietà, ma  la loro estensione  su superfici tanto grandi dà l’idea di uniformità : « Le reg c’est une des rares formes paysagères qui puissennt former le thème paysager unique sur des superficies de 50.000 km. »[13], un’estensione che commisurata alla percezione umana, occupa il campo visivo per giorni e giorni di viaggio via terra.

Questi dati fanno riflettere sul funzionamento delle associazioni di idee rispetto al deserto. Ci chiediamo se la sua simbolizzazione possa derivare anche dai caratteri dei paesaggi desertici, come la ripetitività che stabilisce un trait-d’union immediato coi concetti di infinito e di assoluto. La prima domanda che è sorta come un’urgenza all’inizio di questa analisi è quanto il deserto nella sua reale conformazione morfologica possa influenzare le astrazioni che di esso vengono fatte.

La pietra, la sabbia, le distese di sale hanno ordini di grandezza spiazzanti per chi ne fa esperienza. Chi lo percorre per giorni e giorni si sottopone a una durata prolungata della stessa percezione che genera sentimenti intensi e diversi rafforzati dalla moltiplicazione del tempo del percorrimento e fa del deserto un moltiplicatore in tutte le sue forme paesaggistiche di un assoluto.

Ma in letteratura il deserto non è obbligatoriamente uno spazio di cui si è fatto esperienza. E’ uno spazio ricreato in cui incidono i filtri percettivi della cultura. “ Il n’est de paysage que perçu. Certains de ses éléments n’ont pas attendu l’humanité, mais s’ils composent un paysage, c’est à condition qu’on les regarde. Seule la représentation fait les paysages. Or ces représentations sont extrêmement variables selon les sociétés, selon les personnes, selon les cultures et les modes de vie.”[14]

Il paradosso di fronte al quale ci siamo trovati nell’approcciare il deserto con un’ottica “tridimensionale” è lo stesso che emerge dalle precedenti dichiarazioni di un geografo, secondo il quale il deserto esiste solo se percepito e allo stesso tempo esso esiste solo se viene rappresentato. Il concetto di deserto delineato dalla geografia ci pare di estremo interesse perché a differenza della critica letteraria prende in considerazione il problema della percezione e dell’esperienza come primo approccio di fronte all’analisi di uno spazio. La critica letteraria invece spesso si accanisce contro l’approccio scientifico a causa della « naÎveté et de mal-dit, dans sa manière de rassurer auteur et lecteur par le catalogage des  données et des sentiments » che Jean-Robert Henry sottolinea nella sua spiegazione degli approcci al deserto[15]. Questo catalogage è invece un utilissimo strumento critico e la teorizzazione del deserto come sistema proposto dai geografi si rivela di grande interesse per la sua applicabilità nell’analizzare la presenza del deserto all’interno del romanzo. Questo perché la scrittura mette in atto un processo di creazione dello spazio ordinato in una struttura complessa in cui solo l’insieme delle parti legate tra loro danno il senso del deserto in un dato romanzo, in un modo simile al sistema dello spazio geografico.

Il deserto nel romanzo si compone infatti di tanti paesaggi disseminati nei vari momenti della storia che a loro volta sono composti di elementi paesaggistici statici e dinamici che da soli possono rivestire un grande valore simbolico  nel romanzo. E’ il caso, ad esempio, della duna nel romanzo Les hommes qui marchent di Malika Mokeddem[16]. Gli elementi paesaggistici dinamici come la luce e il vento oltre a trasformare i paesaggi nella forma,  sono collegati a spinte emotive forti che antropomorfizzano le forme paesaggistiche. Nei romanzi infatti, molto frequentemente i paesaggi o i singoli elementi del paesaggio sono collegati agli stati d’animo dei personaggi per un processo inevitabile di proiezione dinamica delle pulsioni emotive sullo spazio.

La ricreazione dello spazio necessararia alla sua rappresentazione, passa attraverso un processo di astrazione o simbolizzazione che spesso porta all’accentramento attorno a particolari componenti che più obbediscono alle esigenze profonde dell’io in un dato periodo storico. Così quello spazio verrà identificato solo ad alcune delle molteplici forme che esso contiene. Dalla accurata analisi del geografo Michel Roux, risulta infatti che la produzione di immagini di paesaggi desertici in Francia nel ‘900 privilegia i paesaggi sabbiosi a scapito della forma paesaggistica dominante reale che è il reg, mentre nel secolo precedente invece c’era stata una prevalenza dell’oasi [17].

Ogni scrittore nella creazione del proprio deserto privilegia alcuni paesaggi piuttosto che altri, compiendo scelte all’interno del sistema che coincidono con una personale visione del mondo. Nella scrittura avviene un processo di proiezione dinamica[18] per cui il paesaggio o i suoi elementi non sono mai descritti in un modo neutro, ad essi si affianca lo sguardo di chi li sta percependo e di chi li sta raccontando che porta con sé qualcosa di aggiuntivo rispetto alla realtà che nel momento stesso in cui viene percepita si soggettivizza, riflettendo l’influenza della memoria personale, oltre che quella collettiva della civiltà di appartenenza. Leggere un romanzo ambientato nel deserto è un’esperienza  diversa da quella che può essere un’esperienza nel deserto reale, senz’altro più comoda ma non meno complessa.

Vediamo quali sono le complicazioni che un approccio letterario non può ignorare.


1.1.2 La superficie mobile.

Avvicinarsi al deserto significa confrontarsi con la vastistità, con una superficie cangiante, con un suolo in cui le piste si cancellano da un’ora all’altra, dove il sole può essere un’incudine e  dissolversi  poi in mille variazioni cromatiche. Allo stesso modo gli approcci con chi ha scritto del deserto possono essere molteplici e mostrare  la distesa infinita dell’immaginario e della parola che col deserto intessono un forte e misterioso legame . Forse perché nella terra del silenzio, la  parola acquista un altro peso, ritrova il suo stato aereo e nel testo scritto unisce il suo destino a quello dei granelli si sabbia nel formare una superficie mobile.[19]  Il deserto dei testi sacri, dei geografi, degli esploratori, dei climatologi, dei geologi, dei mistici e dei romanzieri prende forma nella scrittura che traduce tutte le realtà e tutte le fantasie, “superficie sempre uguale e sempre diversa, come le dune spinte dal vento del deserto[20]”. L’interpretazione di tale superficie tanto vasta e cangiante ha bisogno di circoscrizioni per  non smarrirsi in tutte le possibilità espressive legate al deserto.


1.1.3 Stratificazione, interconnessione e specificità.

Il primo dato che abbiamo riscontrato nel tentativo di circoscrivere il deserto è l’impossibilità di individuare un solo deserto perché esso è costituito dalla storia di tutti i deserti scritti nel corso del tempo e che hanno costruito come una stratificazione di immagini e di modi diversi di scrittura che si influenzano a vicenda sconfinando da un testo all’altro. Questa idea di interconnessione, di scambio e di dialogo tra i tanti testi che compongono i vari campi del sapere è stata al centro delle riflessioni del semiologo Jurij Lotman.  Nella sua opera[21] egli teorizza che l’intero universo, quindi non più, ad esempio, un singolo spazio omogeneo come il deserto nel nostro caso,  possa essere scritto in un unico metalinguaggio. Rovesciando l’impostazione classica della semiologia che considera l’universo semiotico come l’insieme di testi e di linguaggi separati l’uno dall’altro, in cui cioè l’attenzione è concentrata sull’elemento atomico o singolo segno, Lotman, rifacendosi al concetto di biosfera di Vernadskij[22], concepisce lo spazio semiotico  come un unico organismo, la semiosfera, in cui il ruolo primario spetta non al singolo elemento ma al “grande sistema”.

 

Il semiologo arriva a teorizzare l’ipotesi che le dimensioni della semiosfera possano andare al di là della società umana, del mondo vivente e dell’opera artistica fino a chiedersi se tutto l’universo non sia un messaggio facente parte di una semiosfera ancora più ampia. “L’ipotesi dell’unità strutturale dell’universo porta a supporre tuttavia che ai diversi livelli dell’organizzazione tutti gli aspetti della materia debbano rivelare caratteri di isomorfismo e che da un certo punto di vista sarebbe desiderabile descrivere tutto servendosi di un unico metalinguaggio.”[23]

Nell’apertura di prospettiva vertiginosa di una possibile unità metalinguistica dell’intero cosmo non deve certo sorprenderci che il deserto descritto nel linguaggio geografico sia simile alla struttura di fondo che caratterizza la sua presenza nel romanzo. Quando i geografi parlano di uno spazio lo definiscono come un sistema di elementi in interazione dinamica tale da produrre delle forme, i paesaggi, che si possono apprezzare con lo sguardo e che si compongono di oggetti più piccoli[24]. In una descrizione del deserto, Rachid Boudjedra dà una spiegazione  della suddivisione dello spazio utilizzando una terminologia simile a quella geografica, in cui è presente cioè la stessa idea di insieme organizzato in sottoinsiemi.

« L’espace saharien avait une autonomie totale et une spécificité intrinsèque, bien que dans son ensemble il forme plusieurs sous-espaces ramassés ici, redondants là, mais qui organisent ce qu’on appelle communément un désert dont la configuration me saute au visage. »[25]

A questo punto sorge però come nell’alba di ogni giorno legato agli altri ma distinto, il problema della specificità che lo stesso Lotman dichiara  imprescindibile, una specificità che dobbiamo sicuramente considerare come inscritta in un insieme più esteso in cui le parti sono in dialogo tra loro e lungo i confini creano nuove figurazioni del senso. Ovvero considerare che i testi sul deserto - letterari e scientifici - si nutrono a vicenda per formare un macrosistema intorno al deserto.

Dove nasce,  su cosa si fonda e in che rapporto si trova con la realtà quella « spécificité intrinsèque » di cui ci parla Rachid Boudjedra?


1.1.4 Deserto scritto e deserto fisico.

Il  fatto da considerare come imprescindibile è che si tratta di un deserto scritto, ovvero  l’unico dato reale è che uno scrittore in un determinato momento ha compiuto l’atto di scrivere. Per quanto banale possa sembrare, il deserto scritto non sarà mai il deserto fisico percepibile sensorialmente, poiché si tratta di livelli di esperienza diversi che mettono in luce un divario incolmabile tra l’espressione linguistica e l’esperienza sensibile, incolmabile perché non mette in un rapporto diretto con l’esperienza di mondi che non siano quelli della parola scritta pur creando con esso delle corrispondenze.

Sia lo spazio creato dalla parola scritta che quello percepito sensorialmente coinvolgono la vista ma si differenziano fondamentalmente rispetto al  tempo nel quale avviene la percezione visiva. L’esperienza diretta della percezione sensoriale di uno spazio si basa sulla simultaneità, la percezione dello spazio letterario invece si stratifica nel tempo di lettura, poiché la letteratura è per definizione la successione temporale di una serie di elementi astratti[26]. Nel testo avviene una scoperta progressiva attraverso una percezione dinamica che cambia nel corso del tempo poiché ogni nuovo elemento conferisce una dimensione nuova a quelli antecedenti. E’ un processo che Rudolf Arnheim definisce “accretion by amendment” in cui “each word, each statement, is amended by the next into something closer to the intended total meaning”[27], si tratta cioè di una costruzione della realtà che si basa sulla stratificazione di percezioni ed immaginazioni nella quale sono visibili le interruzioni e le pause che possono far cambiare il corso di un significato intrapreso. E’ dalla somma di questi sentieri interrotti e da una crescita lenta che arriviamo a un “senso generale”, al punto in cui cioè sentiamo l’ampio respiro artistico e culturale che l’opera emana.


1.1.5 Il deserto ricreato 

Realista o fantastica che sia, la letteratura proietta in uno spazio letterario, creato cioè dalla finzione letteraria che va ad alimentare l’immensa categoria dello spazio immaginario .

Nello spazio letterario si delinea un gioco di richiami spaziali interni al testo, detti intratestuali, che permettono di percepire lo spazio come una rete formata da tante maglie tutte collegate tra loro. Tale rete non costituisce un sistema a sé ma dialoga costantemente con l’intero sistema del romanzo: l’intreccio, la fabula, i personaggi e i temi. Oltre ai richiami spaziali intratestuali, sono presenti anche richiami spaziali esterni, ovvero extratestuali che legano il singolo testo al “grande sistema” teorizzato da Lotman e iscrivono quello spazio in una prospettiva più ampia.

La letteratura ha in sé, riprendendo le parole di Carlos Fuentes, “un doble caracter dentro de su unidad indivisible”[28], ovvero essa è espressione della realtà e allo stesso tempo è creazione della realtà. L’opera d’arte aggiunge qualcosa che prima non esisteva e nel farlo forma una nuova  realtà assumendo quella antecedente e trasformandola con l’immaginazione e la parola. Una bellissima frase di Fuentes pur non potendo in sé stesssa risolvere il dilemma del funzionamento della finzione letteraria e del rapporto tra realtà e letteratura ne dà una soluzione attraverso la leggerezza poetica costitutiva di tale rapporto: “la novela ni muestra ni demuestra al mundo, sino que añade algo al mundo. Crea complementos verbales del mundo.”[29]

E’ dunque in questa duplice qualità creativa ed espressiva della letteratura che possiamo cercare la specificità intrinseca del deserto di cui parla Rachid Boudjedra, nel confronto tra la realtà e quanto vi è di aggiuntivo nella sua trascrizione, nel bagliore delle nuove visioni che ogni scrittura inaugura e che vanno a nutrire l’immaginario e permettono, riprendendo le parole di Abdelwahab Meddeb che abbiamo citato all’inizio di questo capitolo, di sognare tutti i deserti del mondo anche nell’esilio dell’appartamento[30].

La critica letteraria ha per molto tempo “bruciato” qualsiasi tipo di considerazione nei confronti  dello spazio che non fosse legata ad un’idea di decoratività contenuta nella  descrizione, con ciò che di negativo questa  categoria può indicare: de-scription per Eric Lysoe corrisponde infatti alla negazione della scrittura.[31] L’importanza dell’analisi dello spazio in letteratura negli ultimi anni sembra però essere stata riconosciuta e valorizzata al punto da attribuire allo spazio il ruolo di dispositivo fondamentale che apre l’accesso al significato producendo personaggi e azioni e quello di selettore della parola poiché da esso affiorano strutture linguistiche ed immaginarie.

Crediamo necessario rintracciare alcune linee essenziali nella stratificazione delle diverse immagini di deserto nel tempo per evidenziarne il suo carattere archetipico e il suo valore interpretativo sulla civiltà. Vedremo poi attraverso un’analisi dei romanzi Timimoun e Le Désert sans détour quale sia funzionamento dello spazio desertico, in che modo esso sia dispositivo fondamentale e  selettore della parola e come si inserisca nella dinamica dell’entre-deux.


1.2 L’IMMAGINE DEL DESERTO NEL TEMPO: DAL VUOTO PRIMIGENIO ALLA DECADENZA PETROLIFERA.

 

1.2.1 Deserto e civiltà.

La specificità del deserto e il bisogno della civiltà di una sua idea immateriale e originaria, ha generato da tempi remoti una fertile simbolizzazione e rappresentazione  che accompagna la storia dell’uomo e occupa un posto di rilievo nella letteratura. Le parole di una comune guida turistica possono darci la misura di quanto il deserto sia entrato profondamente nel nostro immaginario contemporaneo ma è ripercorrendo brevemente alcuni periodi fondamentali della storia che il deserto si mostra  come immagine rovesciata della civiltà, come volto inintellegibile e mutante, eppure indispensabile alla civiltà per potersi comprendere. Essa necessita per riflettere su se stessa di uno spazio che simbolicamente incarni il suo contrario, di uno spazio in cui la dimensione primordiale evoca l’origine. Se pensiamo al deserto in una prospettiva storica, vediamo infatti come esso  venga rieletto ciclicamente dalla letteratura quale luogo preferenziale per  ripensare e ridefinire la civiltà.

Jean-Robert Henry sostiene che il deserto sia esplicitamente necessario alla civiltà essendo il suo contrappunto obbligato e rintraccia nella letteratura di tutti i tempi la costante presenza di un confronto tra uomo e deserto. “Que signifie ce retour au désert, sinon que le désert est une idée qui nous est nécessaire, qu’il est – de façon permanente ou périodique – un recours dont notre imaginaire ne peut se passer, car il est essentiel à la perception que nous avons de notre existence? En reprenant la vieille opposition nature/culture, on considérera ici que l’idée du désert est le contrepoint obligé de celle de civilisation”.[32]

La presenza del deserto nella cultura occidentale e nordafricana è costante, ma assume forme diverse a seconda dei periodi. Infatti l’immagine del deserto nel periodo medievale è ben diversa da quella, ad esempio, del periodo romantico. In quest’ottica l’analisi dell’immagine del  deserto assume un’importanza straordinaria per registrare l’evoluzione e i mutamenti della civiltà in rapporto a uno degli spazi che partecipano alla sua forma costituita, spazi che si avvicinano e si allontanano dalla realtà geografica a seconda di ciò che essa vi proietta. Le straordinarie caratteristiche fisiche del deserto infatti ne fanno un luogo di attraversamento in  cui i paesaggi si ripetono identici per migliaia di chilometri.

I testi sacri delle tre religioni monoteiste provenienti proprio dal deserto aprono una prima via di comprensione dell’enorme potenziale di questo spazio attraverso le espressioni linguistiche e i loro relativi significati che hanno influenzato quelli successivi.


1.2.2 Il vuoto della creazione.

Il deserto  prima di essere uno spazio conosciuto ed esplorato, è lo spazio esistente prima della creazione dell’uomo. La terra deserta della tradizione giudaico-cristiana è il deserto estremo del nulla e del non-creato. Nei racconti mitici della creazione del mondo della cultura ebraica, cristiana e islamica il deserto è ciò che si contrappone alla presenza dell’uomo forse proprio perché è la caratteristica della terra appena creata che allude ad un vuoto primigenio.Il deserto nella Genesi è infatti l’attributo che definisce la terra prima della comparsa dell’uomo e di qualsiasi creatura vivente, immersa nella tenebra e nel caos delle acque.

La terra deserta nella lingua ebraica è resa con un immagine molto forte, il termine  tohu[33] indica infatti il deserto totale, il nulla. Il tohu costituisce uno dei due termini della prima dualità risultante dal processo creativo divino che procede secondo il principio di separazione: l’alto e il basso come assi su cui ordinare tutti gli altri elementi che via via si aggiungono alla creazione. La terra deserta creata per separazione dal cielo, esprime l’idea di nulla e di vuoto  identificato nell’assenza di vita, di luce, di suolo[34].

La terra è definitivamente creata solo quando, dopo aver diviso la luce dalla tenebra, le acque sopra al firmamento da quelle sotto al firmamento, Dio riunisce l’acqua in una sola massa e fa comparire l’asciutto. Quindi la terra è definita in opposizione rispetto all’acqua, è quella parte sotto il firmamento in cui non c’è acqua: la terra è il secco e l’asciutto.[35]


1.2.3 La prova e la promessa

Il deserto è anche il luogo protagonista  della formazione del popolo di Israele e del popolo arabo. In entrambi i casi il deserto è il luogo iniziatico in cui la sofferenza e la morte simbolica sono il preludio di una rinascita. Nel Deuteronomio si parla proprio di una prova per la felicità futura (8,14).

Il deserto biblico è privo di descrizioni paesaggistiche, i pochi elementi del paesaggio che compaiono (la sorgente, le pietre, il monte) sono carichi di forti valori simbolici legati alla tensione degli opposti alto/basso e vita/morte. E’ un deserto ricco di lunghe serie di toponimi che descrivono gli spostamenti  avvenuti in seguito a persecuzioni o fughe come nel caso di Agar. Agar, la protagonista misconosciuta della nascita del popolo arabo, è la schiava che ha dato un figlio ad Abramo per rimediare alla sterilità di Sara. In seguito alla gelosia e ai maltrattamenti di Sara, la  moglie di Abramo,  Agar fugge nel deserto (Gn 16,7) dove appare un angelo che le promette l’inizio di una grande discendenza dal figlio Ismaele, l’onagro della steppa. In seguito alla nascita di Isacco, il tanto atteso figlio legittimo di Abramo, Agar sarà definitivamente espulsa dalla famiglia (Gn 21,8 “la cacciata di Agar”) e di nuovo il suo viaggio la porta nel deserto.[36]

Nel deserto di Bersabea Dio accoglie e benedice Agar rinnovando la promessa di una grande discendenza. Quest’episodio è narrato anche dalla tradizione araba che fa di Ismaele, figlio di Abramo, il capostipite del popolo arabo. Infatti proprio dove il racconto narra dell’intervento salvifico di Dio presso Agar - il pozzo di Zemzen- sorge la Kaaba, la casa di Dio che diventerà il punto d’orientamento nel deserto per le preghiere verso Dio[37]. La vicenda di Agar in qualche modo anticipa il destino di Mosè.

Se Abramo rappresenta l’uomo che stabilisce un senso al cammino, Mosè è colui che lo realizza. Il cammino iniziato da Abramo, in seguito all’ordine divino di abbandonare la terra dei padri per andare verso una terra nuova ed incognita[38], sancisce la prova iniziatica dell’umanità che si realizza nei quaranta anni di deserto. Dio per preparare il suo popolo verso la terra promessa sceglie un luogo puro, libero e lontano da tutte le altre civiltà.

Nell’aridità il deserto è puro, è “una terra non seminata”[39]  che ricorda la terra creata prima dell’uomo, distante dal giardino dell’infedeltà e affrancata dal destino di distruzione che la fertilità porta con sé.[40] Quando infatti Israele vivrà nella prosperità della Terra promessa ormai conquistata insieme alla sedentarizzazione, non saprà mettere in pratica gli insegnamenti dell’esodo e l’unità del popolo si frammenterà. Un’aridità positiva dunque perché sinonimo di purezza, ma che conferisce al termine un’ulteriore accezione linguistica - che non sempre sarà letta con segno positivo- quella di deserto come terreno incolto.

Il deserto dell’esodo è il luogo scelto per il suo status di lontananza dalla civiltà e dalla memoria poiché l’unica memoria concessa da Dio per la nuova civiltà è quella del deserto. Infatti la Terra Promessa sarà abitata solo dalle generazioni nate nel deserto che quindi non hanno memoria né di altri luoghi né di altre civiltà.[41] Il deserto attraversato e vissuto dal popolo ebraico è soprattutto però lo spazio in cui immaginare la Terra Promessa. Nasce così per il deserto lo statuto di luogo sul quale proiettare desideri ed ideali. In questa prospettiva, possiamo leggere la prova cui Dio sottopone il suo popolo come prova di immaginazione nella realtà ostile di fame e sete.

I miracoli delle quaglie, della manna e dell’acqua che sgorga dalle pietre definiscono un deserto speciale ricreato da Dio per amore del suo popolo, oggettivazioni tangibili dell’immaginazione che si riveste di sacralità per ricreare un deserto nuovo rispetto a quelli precedenti[42].Il deserto della bibbia è anche un luogo di desiderio, è lì infatti che il popolo ebraico  ha desiderato per la prima volta in Mosè è possibile riconoscere l’emblema “dell’uomo desiderante” morto sulla soglia della terra promessa, sognata, desiderata.


1.2.4 Il cammino

Se nella tradizione giudaico-cristiana, il legame tra il deserto e l’uomo si realizza attraverso l’esperienza e la prova del cammino compiute dal popolo d’Israele, nella tradizione araba, narrata dagli imam Tabari e Ishaq, il deserto nasce proprio durante un viaggio, quello di Adamo dall’India –in cui era stato confinato da Dio dopo la cacciata dall’eden- all’Arabia. « Durant ce trajet fait par le premier homme pour rejoindre la première femme et renouer alliance avec Dieu, naquit le désert »[43]. Secondo l’interpretazione di Dagron e Kacimi l’elemento sterile sulla terra e quindi il deserto compare dove Adamo non poggia il piede. L’alternanza binomica di terra arida e sterile -deserto- e terra fertile e lussureggiante -oasi- segue il ritmo del cammino del primo uomo:[44]

“Il marcha une éternité, et là où son pied s’enfonçait le sol devenait florissant, se couvrait de verdure. A chaque pas une oasis. Mais les contrées situées entre ses deux talons restaient stériles. Là où la terre n’aura pas connu la marche d’Adam, recensé le nombre de ses pas, là elle sera désert”.[45]

Il deserto ricompare in un altro episodio di viaggio. Si tratta del cammino compiuto da Maometto dalla Mecca a Medina - che nel Corano costituisce l’episodio dell’egira- un viaggio che potrebbe essere letto simbolicamente come recupero dei passi dimenticati da Adamo. In entrambe le tradizioni il deserto è la conoscenza conquistata attraverso l’esperienza e la prova del cammino come per riparare l’errore di Adamo ed Eva di aver voluto impossessarsene senza alcuno sforzo.[46] La congiunzione tra il deserto e il cammino ha un’importanza fondamentale nella scrittura di deserto poiché essa trattiene nella sua forma costitutiva e quindi nella sua lettura, degli elementi comuni all’esperienza del cammino. Il cammino come conoscenza nei testi sacri diviene un’elemento struttrale nella poesia preislamica. Nell’antichità araba il rapporto tra civiltà e deserto è contrassegnato dalla conoscenza diretta del deserto in quanto spazio vitale delle società nomadi. Il deserto è la patria mobile, è il luogo della solitudine ma anche dell’incontro della collettività nell’accampamento. I principi della civiltà nomade sono plasmati sul deserto e col deserto. La scrittura che ci hanno lasciato testimonia  la riflessione e il dialogo tra il deserto e l’uomo che lo abita. Dalla scrittura questa unione  riceve il sigillo che garantisce la corrispondenza tra il gesto del cammino umano e del mutamento dello spazio nello scorrere del tempo, gesto che si ripete metaforicamente nella scrittura stessa.[47]


Nella poesia ante-islamica il deserto è infatti forma e sostanza per una scrittura le cui unità metriche prendono i nomi di un deserto percorso dagli uomini con le soste e gli accampamenti che questo comporta. Il verso dell’ode (qacida) si chiama bayt che significa tenda, l’emistichio si chiama shatr e significa mammelle di cammella, l’ultima lettera della rima si chiama al rawiyy e significa abbeveramento. Il metro, ovvero ciò che dà la dimensione del verso, si chiama bahr che significa mare. Ne esistono quindici e ogni tipo corrisponde a una lunghezza diversa che è definita con qualità che riprendono quelle del deserto: profuso, assoluto, semplice, sabbioso; oppure riprendono l’andatura del cammello: rapida, leggera, tremore delle gambe di cammello.[48] Un esempio di ode classica è la Moualaqa o Mu’allaqa in cui il deserto non entra solo nella nomenclatura ma è tema dominante nel rapporto con l’uomo. Essa si struttura in tre parti in cui ritroviamo alcuni elementi visti nella nomenclatura, infatti la prima parte è dedicata al lamento per l’abbandono del campo. In questo senso la composizione di versi (bayt-tenda) corrisponde a un gesto metaforico di ricostituzione dell’accampamento. La seconda parte è dedicata al deserto e alla cammella. Quindi la parte centrale dell’ode si ricollega alla parte centrale del verso nell’immagine di ciò che tiene in vita nel deserto: la cammella. La terza parte è il momento in cui si esalta l’onore dell’individuo e del clan. La ricostituzione della collettività coincide con l’unità ristabilita, tenda dopo tenda, verso dopo verso, tra l’uomo, come individuo e come gruppo, e il deserto.

Mais le campement déserté, mis à nu par l’eau vive, est comme un texte dont une plume aurait renouvelé les lignes,

un tatouage ravivé, dont la poudre, répandue en traits circulaires, rehausse les figures.

J’ai fait halte, j’ai voulu savoir: mais interroge-t-on des muets, des bornes immobiles et qui dérobent leur langage?[49]

 

Come la vita dei nomadi è ritmata dalle tappe degli accampamenti, così la poesia ne segue la struttura che ha ancora una grande inflenza sulla letteratura magrebina di lingua francese. Vedremo infatti come ne Le désert sans détour di Mohammed Dib l’accampamento sia l’oggetto della ricerca dei due personaggi, il simbolo della scrittura e della socialità espresso attraverso le stesse immagini che qualificano l’accampamento come tatuaggio e come sosta che vivifica di senso il cammino[50].


1.2.5 Oltre la polis

Se nell’antichità araba il deserto pervade la struttura della scrittura, nell’antichità occidentale si configura un atteggiamento altrettanto importante per l’influsso che avrà sulla letteratura  moderna di deserto, quello esplorativo. La stessa connessione tra il deserto e il vuoto che abbiamo evidenziato tra i primi significati di deserto nell’Antico Testamento, la ritroviamo anche narrata da Erodoto nella cultura pagana della Grecia. E’ un luogo in cui gli uomini si confrontano con la prova dell’ignoto e del mistero dentro e fuori di sé attraverso il cammino, uno stato di movimento che innesca processi immaginativi differenti da quelli che caratterizzano la condizione di sedentarietà costitutiva della cultura occidentale. Erodoto nel raccontare le terre e le popolazioni  della Libia, diffonde le prime descrizioni di deserto. In questi primi rapporti geografici il deserto fa numerose apparizioni che possono essere lette come pause del sapere, come momenti di silenzio che simboleggiano una zona sconosciuta. Nell’antichità greca il deserto incarna ciò che sta oltre i confini della città, il luogo spaventoso dell’allontanamento dalla polis e del non conosciuto. Le narrazioni di Erodoto prendono una certa distanza dal racconto mitologico proponendosi come primi rapporti geografici e configurano  il deserto, ancora inesplorato dagli uomini, come  l’emblema dell’ignoto posto oltre i confini della civiltà.

Erodoto narra che oltre le colonne d’Ercole si estende un immenso deserto alternato a popolazioni mostruose e bestie feroci: “c’est un immense désert après lequel on rencontre des Androphages, au-delà des Androphages le désert s’étend à perte de vue”[51]. Queste popolazioni sono descritte minuziosamente dalla fantasia di una civiltà che ha bisogno di popolare il vuoto, in cui “perdere la vista” equivale allo smarrimento da scongiurare col pieno. Ma di cosa riempirlo? Di tutto ciò che non può dimorare negli spazi della socialità. Nelle cronache gli uomini delle tribù sono mostruosi agli occhi dei greci perchè mancano di quegli attributi che sanciscono la loro umanità come il nome e la capacità di sognare. La mancanza di identità e l’impossibilità del futuro assicurato dal sogno  premonitorio, sottrae alla storia gli abitanti del deserto[52].

Il deserto è anche il luogo in cui naufragano gli Argonauti di Apollonio di Rodi che sperimentano il dolore e lo spavento di fronte alla terra del nulla: tutto è infinito e vastità dalle proporzioni disumane perché non c’è nessun oggetto vivente o non con cui commisurarsi.[53]Anche la terra, come gli uomini che la abitano, è senza nome, il deserto non è una terra- come non lo era nemmeno nell’esodo- è la visione allucinata del nulla e dell’ignoto che  non ha caratteri reali, occupa l’immaginario che ha bisogno di stabilire al di fuori del sé collettivo tutto ciò che è inaccettabile, come la bestialità inumana e un infinito angosciante perché non concede un ritorno. Dunque per i greci il deserto è la dimora dell’inumano, del nulla e dei vuoti posti al di fuori dei confini della civiltà, cioè oltre le colonne d’Ercole e anche oltre i confini del sapere (non ne so nulla  risponde Erodoto a proposito di ciò che è oltre le colonne).

Per romani l’ignoto è un’entità da assaltare  con spedizioni leggendarie come quella del proconsole Cornelio Balbo nel 20 a. C. o di Svetonio Paolino di cui narra Plinio il Vecchio nella Historia Naturalis (V, 15).  Il rigore razionale romano vuole vincere la paura e iscrivere il deserto entro confini geografici precisi, ma in realtà il deserto resta un luogo immaginato. Plinio nella Historia Naturalis piuttosto che arrendersi all’ignoto, lo popola di un bestiario favoloso, ripetendo lo stesso procedimento di allontanamento dalla civiltà messo in atto dai greci. In questi bestiari possiamo riconoscere un nuovo deserto ricreato dall’immaginazione. Il deserto dell’antichità pullula così di luoghi fantasiosi e leggendari come l’Arabia Felix il cui mito ha resistito fino al XVIII secolo. L’immagine del deserto come spazio per liberare la selvatichezza è l’eredità di queste tradizioni[54].


1.2.6 Il deserto interiore.

Le immagini di deserto viste finora  parlano di un luogo fortemente simbolico che non viene quasi mai descritto nel suo aspetto morfologico. Questo aspetto è amplificato ancor più in tutto il Medio Evo in cui il deserto è lo spazio ideale per la ricerca mistica. Il deserto dei testi sacri è il luogo della benedizione della nascita dei popoli ma anche il luogo della parola divina. Dio ha parlato all’uomo nel deserto e quella voce costituisce l’oggetto della ricerca di molti mistici nella solitudine del deserto reale ma anche dei monasteri in cui il deserto perde ogni connotazione geografica e paesaggistica per smaterializzarsi in luogo ideale.

Già nei Vangeli il deserto è privo non solo di descrizioni ma anche di quei riferimenti toponimici di cui era invece ricco l’antico testamento. Il deserto di Cristo è lo scenario scheletrico in cui, come in uno sbalzo, è incisa la prova superata. Non importa dove questa avvenga, è l’esempio valido per tutti gli uomini della terra dai tanti paesaggi. Il deserto si  popola attorno al III-IV secolo d.C. di migliaia di eremiti e di mistici che seguendo l’esempio dei Padri del Deserto, scelgono questi luoghi per una ricerca spirituale e allo stesso tempo manifestano una reazione contro il mondo opulento e corrotto. Il deserto diviene quindi lo spazio di elezione per realizzare  la fuga mundi[55], la fuga dalle questioni materiali ma anche dalle dispute teologiche e filosofiche.

« Cette présence de nombreux pères au désert est beaucoup plus que le résultat de la persécution de Dèce(...). En effet, cette quête dans le désert, à partir du IV siècle, est une réaction du christianisme contre les dangers de la sécularisation venant de l’accès de l’Eglise au rang de religion d’Etat. Au désert, les pères vont chercher une pureté qu’ils ne trouvent pas dans les villes ».[56]

Andrée Chedid ricostruisce nel suo romanzo Les marches de sable un deserto popolato di rifugiati che tentano di sfuggire alle persecuzioni religiose, alle pressioni fiscali, all’assurdità del mondo che si fa metafora di una situazione che si ripete nella contemporaneità. « Un grand nombre, écoeurés par cet univers absurde et ses contradictions, s’enfoncent dans les sables , espérant retrouver, à travers la vie d’ermite, une source originelle que le siècle a étouffée ».[57] Qualche secolo più tardi i monasteri sorgono in grande numero anche lontano dal deserto, comunque in luoghi ai confini con la civiltà, nelle cellette isolate che permettono quella distanza necessaria per esplorare il deserto interiore come invitava a fare Sant’Antonio: “Si tu veux être ermite, va dans le désert intérieur”.[58]

 

I padri del deserto[59] infatti, costituiscono il modello per il movimento monastico che raggiunge il suo apice in Europa attorno ai secoli XI e XII promuovendo un’immagine puramente simbolica del deserto e dando vita ad una nuova accezione linguistica del termine che si applica ai luoghi solitari. Questo approccio mistico costituirà un modello di riferimento nel ventesimo secolo  per le figure carismatiche dei “nuovi eremiti” come sono stati Charles de Foucault, Théodore Monod o Ernest Psichari per i quali la tensione spirituale si è unita alla stessa spinta critica della civiltà di provenienza che ha portato in entrambe le epoche a cercare nel deserto quella purezza che si era assentata dal mondo.


1.2.7 Il deserto esotico.

Il deserto astratto da esplorare nella solitudine della ricerca interiore è l’immagine dominante finchè dalla letteratura francese del Settecento spuntano nuovi e più ameni deserti. Se l’età dei lumi aveva preso una netta distanza dalla chiesa e quindi dall’ascetismo, aveva dato però inizio a una nuova sensibilità nei confronti della natura che matura nel romanticismo influenzando anche il modo di vedere il deserto. La terra è il luogo avventuroso di viaggi che svelano nuovi paesaggi narrati nei resoconti e rielaborati nei romanzi che arricchiscono una letteratura sempre più affascinata dagli esotismi. Ferdinand Denis, nel saggio del 1824 Scènes de la Nature sous les tropiques,[60] enumera ed analizza i caratteri che fanno del deserto una feconda fonte di ispirazione letteraria per la sensibilità romantica come “la sterilità sublime”, oppure “la dolcezza delle oasi”, o ancora “la violenza del simoun” e “la poesia della vita nomade”. D’altra parte la cartografia postcopernichiana aveva allargato gli orizzonti del pianeta rendendo più oggettiva anche la dimensione dei deserti che fino al settecento figuravano come misteriosi spazi bianchi sulle mappe.

In seguito ad eventi storico-policiti che avranno ripercussioni durature quali le campagne napoleoniche in Egitto e la presa d’Algeri nel 1830, il deserto torna pienamente a radicarsi nella realtà geografica e per l’occidente comincia ad essere lentamente conosciuto.

Allo stesso tempo la produzione letteraria e gli scambi sempre più frequenti fanno sì che il deserto prorompa nuovamente nell’immaginario collettivo, arricchito però da un riscontro con la realtà fisica di quei luoghi. La conquista francese dell’Algeria ha una grande influenza sull’arte, pensiamo ad esempio all’opera di Delacroix, ma anche sui vari generi della letteratura che vedono nel deserto una ricca fonte di esotismo vissuto in maniera passionale. Il ritmo del racconto qui viene scandito da descrizioni inserite in quadri quasi pittorici, che fungono da fermo-immagine in cui effettivamente le immagini si cristallizzano creando un’illusione di verità. Secondo Roger Mathé infatti questo procedimento della letteratura esotica tende verso una separazione dalla realtà. “La littérature exotique se propose de révéler au public un pays étranger, dont la singularité est susceptible de lui plaire. Rien d’étonnant à ce qu’elle s’adresse surtout à la vue, puisque le lecteur, suivant la piste de l’écrivain, tient le rôle du touriste qu’un guide avisé initie aux secrets d’un autre monde. L’exotisme tend alors à se couper du réel. Cet artifice convient aux rêveries exotiques où l’auteur, emporté par son imagination, recueille, en une masse dense, nombre d’éléments conventionnels: il prétend créer l’illusion de la vérité en utilisant la force étourdissante d’un torrent d’images”.[61]


1.2.8 La letteratura sahariana

La conquista dell’Algeria e del nord Africa da parte della Francia inaugura una nuova letteratura detta “coloniale” composta dagli scritti di viaggiatori, etnologi, missionari, militari, amministratori ed esploratori, ovvero da quella moltitudine di persone che interagiscono con questi “nuovi” territori. All’interno della letteratura coloniale possiamo distinguere, a partire dall’Ottocento, una vera e propria letteratura sahariana in cui il deserto appare sotto la penna di scrittori illustri di quel periodo come Balzac, che nel 1832 pubblica Une Passion dans le Désert, Fomentin, autore di due romanzi ambientati nel deserto Une été dans le Sahara del 1857 e Une été dans le Sahel del 1859,  il Voyage en Orient di Flaubert del 1852, Cinq semaines en ballon di Verne del 1863 e Au Soleil di Maupassant del 1884 e, a fine secolo (1895) Le désert di Loti.

Le immagini del deserto che questa letteratura diffonde sono legate ad un’idea di natura selvaggia, pura ed assoluta e vanno a formare un mondo diverso e affascinante da contrapporre a quello occidentale. La solitudine si maschera di avventura e spesso il deserto è quello delle oasi con immagini di “palme regine della sabbia” e “belve sentimentali”.

La conquista dell’Algeria apre alla Francia l’accesso al Sahara e fa mutare le rappresentazioni simboliche verso un’immagine più forte e meno figurata del deserto, arricchita cioè di un corpo geografico.

« C’est seulement à partir de la conquête de l’Algérie que la sensibilité, ancienne ou nouvelle,  au désert s’enracine dans un réel sensible et communicable, qu’il y a conjonction possible entre le fantasme et l’expérience. Le réel fécondant le merveilleux, les conditions sont réunies pour que le désert devienne la grande terre de parcours de notre imaginaire collectif. »[62]

A questa trasformazione partecipano per primi i romanzi che descrivono le traversate del deserto. Il tema della traversata diventa un vero e proprio topos nella letteratura sahariana, iniziato  tempo prima coi racconti di militari ed esploratori. Il romanzo di riferimento di questo genere è infatti Le Grand Désert del generale Eugène Daumas del 1848,  in cui l’autore, quando ancora l’esplorazione europea del Sahara aveva mosso solo pochi passi, racconta dal punto di vista di un viaggiatore arabo, le peripezie di una carovana che viaggia dal Sudan all’Algeria. La traversata diviene l’emblema della prova ma anche la prima forma di conquista del grande Sahara, temi questi che occuperanno tutta una letteratura in cui il deserto è la sfida da vincere per la civiltà moderna. I due approcci che si delineano nell’epoca moderna riprendono quelli del passato: quello spirituale che risale alle tradizioni religiose e quello eplorativo dell’antichità greco-romana, ma si arricchiscono di elementi nuovi e si intrecciano tra loro delineando nuove conformazioni di senso.

Possiamo riconoscere infatti nei deserti narrati da esploratori e militari il tema della prova già incontrato  nel deserto delle tradizioni religiose che riconferma il deserto come luogo iniziatico.

La prova però non è più solo finalizzata all’incontro con Dio, all’inizio del Novecento è una sfida lanciata alla natura per dominarla e sottometterla. Il Sahara è un grande nemico da vincere, da penetrare e conquistare per essere asservito al mito del modernismo che troverà piena soddisfazione con la scoperta del petrolio. Il deserto come spazio di sfida permette all’io di oscillare nella dismisura nutrendosi della mitologia della forza, esemplificata dal mito di Alessandro il Grande che andava alla ricerca delle proprie origini divine  tra le dune della Libia.

Ai due approcci suddetti corrispondono due modelli che caratterizzano il romanzo sahariano francese del Novecento: quello avventuroso e quello più intimista di ricerca interiore. In entrambi i casi gli eroi proposti sono in rottura con la civiltà di provenienza –come succedeva nel quadro ascetico-monastico-  poiché l’avventura coloniale si profila su uno sfondo di crisi morale e intellettuale. Le certezze religiose vacillano con le nuove ideologie di Marx e anche quelle scientifiche sono messe sotto pressione dalle teorie di relativizzazione provenienti dalla fisica e dalla psicanalisi: lo sviluppo della civiltà occidentale all’inizio del  secolo viene  rimesso in questione. E’ in questo quadro che si profila l’avventura coloniale nel Sahara e la letteratura sahariana non può non portarne le tracce dolorose. Spesso i racconti di cui sono protagonisti gli eroi sahariani contengono critiche aspre verso il mondo moderno come nel caso di Psichari, Saint-Exupéry, Peyré, Monod e della Eberhardt. Il primo, impegnato nell’esercito, nel deserto riceve la rivelazione della  fede ed entra nell’ordine dei domenicani. Il suo romanzo Le voyage du centurion pubblicato nel 1916 è la versione romanzata del racconto autobiografico Des voix crient dans le désert,  che ha un enorme successo ed influenza su romanzi successivi, ripercorre la sua esperienza. Il protagonista, Maxence, malato del suo tempo, fugge dal suo mondo d’origine per trovare la verità nel deserto.

« A vingt ans, Maxence errait sans convictions dans les jardins empoisonnés du vice, mais en malade, et poursuivi par d’obscurs remords, troublé devant la malignité du mensonge, chargé de l’affreuse dérision d’une vie engagée dans le désordre des pensées et des sentiments »[63].

La malattia di Maxence è la metafora della decadenza della società che, nella visione di Psichari, è il frutto dei valori  ereditati dall’illuminismo e dal  mito del progresso.  Il deserto è di nuovo il luogo dove rifuggire la perdita di spiritualità e ritrovare un tempo primordiale puro e intatto, l’opposto della frammentazione iniziata nel mondo occidentale con la frammentazione delle molecole. In questo modello intimista di romanzo sahariano l’immagine astratta di deserto ereditata dal passato si arricchisce di descrizioni fisiche e soprattutto di sensazioni provenienti dal contatto diretto con tale spazio. La quête, lontana dalla civiltà e lontana da Dio va sempre più addentrandosi nell’interiorità umana che dialoga con la sensorialità del paesaggio.

Questa nuova sensibilità arriva alla piena maturità in opere quali Les nourritures Terrestres (1934) di André Gide e, qualche anno più tardi, Noces (1938) e L’exil et le royaume (1957) di Albert Camus.

Lo stupore di fronte alla natura, l’émerveillement, è assimilabile ad un’esperienza erotica, ad “appetito sensuale” come lo definisce Fromentin in Une été dans le Sahara (1938). Nathanael, il protagonista de Les nourritures Terrestres, cerca nel contatto sensoriale e sensuale con la natura un completamento dell’essere che viene proposto come  verità essenziale nella concezione dell’esistenza. “Au «cogito» de Descartes, s’oppose le «gaudeo» de Gide en similitude avec la volupté révélatrice du bien être, du bonheur. Pour Gide l’extase part du monde environnant, non avec une eau absente mais une lumière abondante, ruisselante, offrant une liquidité sans limite, avec une sorte d’excès, d’avidité dans l’accueil de l’espace en soi, du moment que l’extase réside bien dans la matière, elle naît d’elle, et, quand elle s’y éteint, c’est pou mieu renaître encore.”[64]

Premettendo che il deserto è una tra le “immagini primordiali” dell’ opera di Camus la cui complessità richiederebbe uno spazio di approfondimento ben più ampio di quello che abbiamo a nostra disposizione, possiamo constatare come la stessa esperienza sensoriale col paesaggio in Camus approdi ad una visione

 

differente dell’esistenza.[65] In Noces lo slancio e la fusione vitali dilatano il corpo umano che aderisce alle dimensioni della terra in cui i battiti si confondono in uno scambio energetico. « J’étais un peu cette force selon laquelle je flottais, puis beaucoup, puis elle enfin confondant les battements de mon sang et les grands coups sonores de ce coeur partout présent dans la nature »[66].

L’estasi, proveniente da questa esperienza con la natura, viene circoscritta nelle opere successive alla finitezza dell’uomo e alla sua solitudine. La protagonista di La femme adultère (1957) fa esperienza di una rivelazione mistica descritta in termini erotici. Attraverso il risveglio del suo corpo, nel deserto riceve lo splendore della notte e percepisce l’assoluto nella comunione con la natura. Ma questa esperienza sarà anche quella della drammatica solitudine,  dell’impossibilità di comunicare e di condividere ciò che ha appreso nel deserto. In un altro racconto contenuto nella stessa raccolta, Le Rénegat, il protagonista viene torturato e costretto ad adorare il feticcio di una crudele comunità del

deserto. Il giovane missionario cattolico subisce così il rovesciamento degli intenti civilizzatori che l’avevano spinto nel deserto e soccombe alla sua realtà ostile e brutale. Nell’analisi di L’exil et le royaume, English Showalter definisce il deserto di Camus come “the mirror of humanity’s existential aloneness in a barren, meaningless creation”.[67] L’immagine del deserto nella sua opera, coniuga, nella sua complessità, le forze della distruzione e della creazione, dell’amore e della disperazione sulle quali si innalza la verità positiva della bellezza del deserto.

L’altro modello di romanzo sahariano del Novecento è quello avventuroso  che ha maggiore fortuna tra le due guerre. Qui l’eroe è impegnato in una grande impresa positiva che assume nel tempo figure diverse: il meharista ne L’escadron blanc di Joseph Peyré, il cavaliere ne Les chevaliers sans éperons di Jean d’Esme, l’aviatore dei romanzi di Antoine de Saint-Exupéry Le petit prince e Terre des hommes. Sono tutti potenzialmennte “cavalieri” che si nobilitano attraverso le prove, tra le quali la principale resta la traversata, affascinati dall’avventura, dalla libertà e dal pericolo. L’esperienza del deserto è per loro un continuo confronto con la morte, (aspetto che lega questo modello alla  realtà attuale del motociclista della Paris-Dakar) attraverso il percorso iniziatico in cui l’eroe muore al suo mondo d’origine e attraverso la prova del desertorinasctrasformato e arrichito di una nuova verità o una nuova visione del mondo e può riprendere il suo cammino verso gli uomini.


1.2.9 Il deserto petrolifero

Questo spazio iniziatico portatore della voce di una contro-cultura occidentale attraverso espressioni diverse e nel suo paradosso, [68] viene messo in crisi dalla scoperta del petrolio (1956), di gas e fosfati nel Sahara. Se il deserto era stato definito finora in contrapposizione alla civiltà ora ne diviene un prolungamento. Il tempo primordiale che vi regnava viene inserito nel tempo profano della storia e della tecnica e segna il crollo del mito: la purezza dello spazio diviene ritardo e sterilità.

L’indagine delle pubblicazioni sul deserto del comandante Bernard Blaudin de Thé Essai bibliographique du Sahara français et des régions avoisinantes[69] tra il 1952 e il 1960 registra il prevalere di testi sulle industrie estrattive sui romanzi, testi che fino al 1952 non contavano nemmeno un titolo.

Questo dato è rivelatore del nuovo inquadramento del deserto nell’ottica del mito produttivista europeo del dopoguerra, in cui l’uomo affronta il deserto per il benessere dell’umanità e gli offre la possibilità di raggiungere il mondo civilizzato. L’uomo ha il pieno dominio dello spazio spogliato della sua aura sacrale.

« Les bulldozers défoncent le sol; les équipes sismiques font voler les sables; les trépans sondent les entrailles du désert! Et des ergs blonds ou des regs caillouteux, surgissent le gaz et l’ouile. »[70]

In questi anni é nell’opera di Albert Cams che si può riscontrare un pensiero complesso rispetto al deserto fisico dell’Algeria e a quello della città moderna. In generale, i grandi  romanzi diventano rari, il romanzo sahariano francese cessa d’essere un prodotto letterario “serio” e si rifugia in generi minori diventando uno sfondo per romanzi polizieschi e di spionaggio (Les aventurier du pétrole di Gil Perrault 1957, Le rendez-vous du désert di H. Woodline 1958 o Aurora du désert di R. Caron 1968) o ancora dei fumetti di fantascienza (Simon du fleuve di Auclaire).

Gli effetti della colonizzazione e della industrializzazione del deserto sono invece centrali nello sguardo problematico della letteratura magrebina di lingua francese.


CAPITOLO II

Il deserto nella letteratura magrebina.


2.1 DESERTO E PROBLEMATICHE SOCIALI.

L’avventura petrolifera insieme a tutto il carattere epico di cui era stata caricata, non ha lunga vita almeno per quel che riguarda la scrittura. Gli anni cinquanta segnano infatti l’inizio della letteratura magrebina di lingua francese, delle guerre di indipendendenza degli stati nordafricani e la crisi definitiva del modernismo. Le guerre e gli effetti negativi del colonialismo, dopo i primi entusiasmi per l’indipendenza raggiunta e la costituzione di nuove nazionalità, non tardano a mostrarsi nell’ondata di delusione e disillusione che pervade la scrittura tragica del primo periodo della letteratura magrebina. Gli eroi di romanzi fondamentali di quegli anni quali La statue de sel di Albert Memmi (1953), Le sommeil du juste di Mouloud Mammeri (1955) e Nedjma di Kateb Yacine (1956), esprimono tutta l’impotenza di fronte  al sentimento di esclusione dalla Storia, il desiderio di un’emancipazione considerata irrealizzabile e la certezza dell’impossibile intesa tra le diverse comunità.[71]

Questa sensibilità è ben evidenziata nel romanzo Je t’offrirai une gazelle di Malek Haddad, del  1959, in cui il deserto riveste una certa importanza come luogo d’ispirazione letteraria e simbolo della ricerca di un’impossibile felicità.


2.1.1 L’autonomia dello scrittore

Nel romanzo di Haddad il pessimismo dovuto alla guerra regna sovrano sulla scrittura, sulla tradizione e sull’occidente. Je t’offrirai une gazelle inquadra il problema dello scrittore confrontato alla guerra. Il protagonista è infatti un giovane ed anonimo scrittore algerino in esilio a Parigi mentre in Algeria è in corso  la guerra per l’indipendenza.

Egli sta per pubblicare un romanzo, anch’esso intitolato Je t’offrirai une gazelle, che costituisce la materia del suo racconto narrato dal deserto della città e dell’esilio. I protagonisti di questo racconto nel racconto sono due principi di tribù nomadi del deserto, Moulay che è dovuto diventare un autista, e Yaminata che è rimasta una principessa Tuareg e che seguendo la tradizione gli chiede come prova d’amore di catturare per lei una gazzella viva. Così Moulay inizia la ricerca nel deserto ma, durante la caccia, la gazzella muore segnando l’inizio della sfortura di Moulay che come lei morirà nel deserto, suicidandosi.

Al suicidio di Mulay corrisponde il suicidio letterario del protagonista-scrittore che decide di non pubblicare più il suo manoscritto. Il deserto della storia d’amore gli appare come una fuga in un mondo onirico in cui cercare quell’armonia che si è assentata dal mondo reale e che per questo deve egli stesso rifiutare : « le Sahara est une guet-apens. Il offre tout et ne donne rien »[72].

Il poeta in una situazione di urgenza civile non può concedersi miraggi e il dono d’amore della gazzella che è simbolicamente anche dono letterario, si rapprende in dolore e disperazione. « Peuple (…) je t’offre la gazelle ramenée du desespoir ».[73] Haddad apre così il problema della libertà individuale dello scrittore in una realtà in cui vi è l’urgenza di quella collettiva e nega al deserto la possibilità di poter essere raccontato come luogo dell’immaginazione.

Dopo l’indipendenza la situazione non migliora molto. Le tre vie possibili dell’ideale comunista, della rivalorizzazione delle culture tradizionali e dell’adesione alla cultura occidentale spesso appaiono come vicoli chiusi. La società deve ricostituirsi in un clima di disillusione e di dissensi interni, in cui si fa avanti una nuova casta di profittatori che hanno sostituito i colonizzatori e in cui la religione diviene ipocrisia dell’ordine morale e limite per la libertà d’espressione.
2.1.2 La dialettica nord-sud : acquisizione della storia e dell’identità

Con l’indipendenza raggiunta dagli stati magrebini il deserto entra a far parte dei territori nazionali e si aprono discussioni relative alla questione dei confini che sfociano in due conflitti duraturi e sanguinosi, quello tra il Ciad e la Libia e quello del Sahara Occidentale[74]. Col concetto di confine (che è la conseguenza dell’esportazione del concetto di Stato come  modello di organizzazione politica in epoca coloniale da parte dell’Occidente e che si è vefificato poco applicabile per le popolazioni nomadi che vivono in tali territori[75]) viene messo in crisi anche l’idea di “terre vague” che ha alimentato l’immaginario relativo al deserto.

Il deserto si configura all’interno delle nuove Nazioni in una dialettica nord-sud con atteggiamenti sensibilmente diversi per ciascuno di essi, ma che ruotano attorno a due poli principali. Il deserto per gli stati nord-africani è a sud,  un sud che rappresenta sia la parte arretrata da modernizzare per beneficiare delle risorse petrolifere ma anche il ricettacolo della tradizione con cui il processo identitario deve confrontarsi. La prima valenza è più marcata in Algeria, mentre la seconda investe in  modo più consistente Tunisia e Marocco.

Nel romanzo algerino La traversée[76] di Mouloud Mammeri (1982) vengono sottolineati gli aspetti politico-sociali del rapido cambiamento che il deserto ha subito in epoca post-coloniale e come questi si ripercuotono sull’immaginario. Il protagonista, Mourad,  è un giornalista confrontato alla disillusione dell’Algeria indipendente. Nel paese per il quale ha lottato per costruire la libertà, egli non può più esercitare la sua professione. Il suo articolo “La traversée du désert” subisce la censura del suo editore che non ne accetta la visione critica. Dopo una prima decisione di lasciare Algeri per Parigi come gesto di rifiuto del sistema, torna sui suoi passi e accetta come ultimo incarico per Alger-Révolution, il giornale per il quale ha lavorato, di riscrivere un articolo su una traversata del deserto non metaforica, come era stata quella del primo articolo, ma basata sulla reale esperienza di un viaggio nel deserto. Mourad parte così verso il sud del paese insieme ad altri due giornalisti francesi, anch’essi impegnati in un reportage sul deserto, e un religioso islamico che insegue un sogno di purezza nei luoghi che più somigliano a quelli della rivelazione del profeta.

Mammeri nella scelta dei personaggi mette in campo le forze intellettuali protagoniste del presente del suo paese: da un lato la  religione, che nei panni di Boualem cerca di appropriarsi dei i luoghi sacri dell’Islam spostandoli  all’interno dei confini algerini, e dall’altro il giornalismo, che più di ogni altra scrittura ha il compito di dare voce alla realtà. Ognuno dei personaggi parte caricato da una forte idealizzazione nei confronti del deserto che crea conseguentemente delle aspettative. Ma la  scoperta del deserto petrolifero coincide per ognuno di loro col disincanto e con un percorso interiore di “revisione” scandito dai riferimenti petroliferi rispetto ai quali sono orientati tutti i luoghi attraversati. Per Mourad si apre un mondo che gli era sconosciuto e che gli dà una nuova proporzione del suo paese che ha da poco deciso di lasciare. Scopre come la realtà dei pozzi petroliferi operi una sottrazione alla cultura delle popolazioni nomadi. Il loro nomadismo ora è finalizzato al trasporto dei camions di petrolio, le donne a cui da sempre era affidata la trasmissione della cultura si prostituiscono  e il sapere viene imposto dalla scuola sedentaria che soppianta la loro lingua e la loro letteratura con quella francese. Questo viaggio convince definitivamente il protagonista dell’inutilità della rivoluzione e converte la sua visione di idealismo nel concetto di rinuncia ben esemplificato dal termine touareg amdouda. E’ Ba Salem, un personaggio incontrato verso la fine del viaggio, che fa maturare in lui questa idea. Mourad dopo la traversata del deserto decide di tornare al suo villaggio natale anzicchè partire per la Francia,  ma proprio lì, ad un passo dall’unità ricostituita,  muore in preda ad un accesso di febbre delirante.

Mettendo in scena la morte di Mourad,  Mammeri lascia il lettore di fronte al lutto per l’eroe che col suo sacrificio cede un ultimo soffio vitale all’idealismo e al tempo stesso lo problematizza: gli ideali hanno ancora bisogno di eroi disposti a morire?

Il deserto in questo lungo percorso interiore ed esteriore si configura come il luogo della rappresentazione allegorica della rivoluzione nel primo articolo censurato e come luogo di un confronto vero con la realtà sociale del sud che innesca una riflessione critica per ognuno dei personaggi sull’ideale nelle sue varie forme: politico, religioso, esistenziale.

Il tema sociale delle popolazioni del deserto è presente in un altro romanzo algerino, Les Hommes qui marchent[77] di Malika Mokeddem, una scrittrice del sud dell’Algeria che ha vissuto in prima persona la sedentarizzazione nel deserto e successivamente l’emigrazione in Francia. Si tratta di un romanzo autobiografico e di deserto al femminile nella tematica e nella struttura del racconto  che prende spunto dalla tradizione orale nomade: la narrazione è incarnata a turno dalle voci femminili di  Zohra, ultima rappresentante del mondo nomade che sedentarizzandosi tenta di conservare il valore della sua cultura divenendo nomade des mots, di Saâdia, la prima donna del clan che si rivolta all’oscurantismo della tradizione e di  Leila che è invece la voce del riscatto della condizione femminile attraverso la scrittura. Attraverso la storia di una famiglia nomade costretta alla sedentarizzazione, viene messo in luce il trauma che questo passaggio ha provocato nei valori e nei modi di vita e reso visibile dal mutamento degli spazi. L’azione si svolge in uno ksar, il villaggio per le soste che veniva costruito con materiali che ne segnavano la transitorietà e che viene trasformato dopo la colonizzazione  in cemento, un peu de mort que vient parasiter la vie.[78]

 

Nel corso del romanzo si disegna la storia recente dell’Algeria, dalla seconda guerra mondiale alla fine degli anni settanta. La storia di una giovane nazione dove hanno convissuto molte realtà culturali e religiose finché l’indipendenza non s’è rivoltata contro se stessa con la chiusura dell’integralismo islamico. In questo romanzo il deserto è la terra d’origine e viene descritto e raccontato  come alleato, come elemento collante di un’identità culturale che la storia ha messo a dura prova e come simbolo di libertà, soprattutto femminile.

La violenza della guerra raggiunge anche il deserto che conserva le impronte dei proiettili e delle esplosioni, dei tentativi di immobilizzazione anche dello spazio attraverso la costruzione di confini artificiali fatti di materiale tagliente e durevole.

« Les hommes de Bigeard ont tendu d’immenses fils de fer, même à travers le désert. Des fils tout en dards, leurs barbelés, dans lesquels circulent la foudre et l’éclair et qu’ils ont truffés de mines…ils sont eux mêmes de fer, les hommes de Bigeard. Ils mettent la mort en boîte et l’essaiment sur l’immobilité des terres d’éternité…ils sont partout, dans l’air et même sur la mer des sables. (…) Le cuivre des cartouches essaimait le sable d’une poudre d’étoiles. Celui des obus mamelonnait la dune d’une multitude de petits soleils oblongs. Au comble de l’épouvante, le regard de la fillette balaya la dune. Elle ne la reconnut pas. Celle-ci n’était plus qu’un théâtre tragique, une convulsion colossale. Le ciel s’échappait d’elle, sec et violent, un sanglot cosmique….la dune que ne retrouvaient plus ses yeux, écrasa sa gorge et sa poitrine »[79].

 

E’ sempre algerino l’autore di uno dei più interessanti romanzi di deserto della fine degli anni ottanta: L’invention du désert di Tahar Djaout.[80] E’ la storia di uno scrittore che è stato incaricato dal proprio editore di scrivere la storia di Ibn Tumert, creatore della dinastia degli Almohadi nel XII secolo e famoso per il suo puritanesimo. Lo scrittore – che vive a Parigi, una “città fredda” – comincia a documentarsi su questo personaggio ma si scontra con una realtà storica dolorosa quanto quella attuale. Il ritmo del romanzo diventa incalzante: non si tratta più di scrivere l’erranza di Ibn Toumert e dei suoi uomini nel deserto –del loro periplo vengono descritte solo le tappe cittadine e mai quelle nel deserto-  ma è il deserto che, con Ibn Toumert, invade lo spazio fisico e mentale dello scrittore moltiplicandosi in tanti deserti. Quello di Parigi nella sua freddezza e incomunicabilità, « une ville plus aride que les plus arides des déserts où on se retrouve impuissant, empêtré dans les mailles d’une blancheur froide »[81]; quello dell’idea di sud indeterminato:  « La route vers le sud, c’est l’illusion de l’été, d’un temps toujours identique et toujours renaissant, d’une lumière figée et distendue comme dans une immobilité d’hypnose »[82]; quello che affiora ripercorrendo la storia e le peregrinazioni degli Almoravidi:

« Le désert m’envahit. Je me transborde dans des errances malléables. L’impression d’étrangeté que j’éprouve doit être identique à celle des Almoravides découvrant dans leur avancée conquérante le nord du Magrheb, le pays des eaux et des verdures. Avec quels yeux, quels viscères, ces hommes hantant les dunes précaires et les parcours sans repères, croyant toutes les prophéties possibles, familiers des paysages pierreux et des étoiles-pancartes, les oreilles encore pleines de chuintement du sable et des cris des démons africains, avec quels yeux et quels viscères aboedèrent-ils les vergers, les arbres qui s’agitent sous les vents, les calottes de neige sur les monts, les viles qui allongrent leurs jambes dans la  mer? »[83]

 

Tutti questi deserti finiscono per confrontarsi con quello interiore del protagonista,  il deserto inventato dal’incrocio di fantasie infantili e adulte:

« Je songe à un désert tout blanc où la lumière n’accable pas, un désert aux bêtes soyeuses dont la fourrure se confond avec l’éclat de la neige. ».[84]

 

In questo romanzo il deserto si manifesta come un’invasione mentale e una febbre geografica generata dal tentativo di ricostruire la Storia che nel personaggio di Ibn Toumert trova significativi legami con la degenerazione presente della religione in Algeria. Tale ricostruzione pur appartenendo alla sfera temporale avviene attraverso la sfera spaziale narrata da varie angolature: quella multiforme della memoria, quella del presente della città fino a quella dell’immaginazione. Djaout crea  un intreccio tra il tempo (personale e collettivo) e lo spazio che si attivano  e si mediano a vicenda cancellandone i confini che li separano. Il risultato di questa intersezione secondo l’interpretazione di R.Bivona, non è la celebrazione dei fantasmi del passato ma il re-impossessarsi di uno spazio e la riattivazione di un tempo morto che si fa stimolatore di quello presente. “Il tempo muta, media, diventa malleabile, non è più legato alla sua inesorabilità, resta invece indissolubilmente incollato alla resina dello spazio”[85]. Djaout cerca, attraverso il personaggio di Ibn Toumert, di penetrare alcune delle ragioni che lo hanno condotto a farsi, in nome della verità divina, un agente dell’intolleranza e della repressione. Ma i due nel corso del romanzo si scambiano i ruoli e il personaggio che dovrebbe restare relegato nei libri e nel passato se ne divincola uscendo dallo spazio della citazione per invadere quello della narrazione. Interrogando Ibn Toumert, finisce per interrogare se stesso e capire che entrambi sono mossi dalla ricerca della purezza. Se l’eroe di Mammeri in cerca dello stesso ideale è morto nella finzione del romanzo per testimoniarne l’impossibilità e al tempo stesso preservarlo, nel caso di Djaout si sono tragicamente invertite le parti. Qui è lo scrittore, nella realtà drammatica dell’Algeria a soccombere e non il suo personaggio nella finzione romanzesca.

Nei romanzi tunisini e marocchini il deserto rappresenta quel ricettacolo di valori religiosi, sociali e  politici provenienti dalla tradizione del sud a cui il nord può e deve attingere per trovare un senso e delle risposte. In diversi romanzi il deserto non è il luogo principale dell’azione ma il protagonista di un momento fondamentale della storia, dato questo che fa riflettere sulla  coincidenza tra la realtà geografica del paese e la sua presenza nella letteratura.

Le désert di Albert Memmi[86]è il racconto in prima persona della vita e delle avventure di Joubair Ouali El Mammi, lontano antenato dell’autore e fondatore nel XIV secolo di un minuscolo reame nel deserto chiamato “Royaume-du Dedans”. E’ un romanzo storico che rimette in causa umoristicamente la storiografia magrebina mescolando il racconto pseudo autobiografico a quello del primo grande storico del magreb. Le désert è infatti, secondo l’interpretazione di Guy Dugas, « une chronique assez fidèle, quoique romancée, de la vie du grand historien et philosophe arabe Ibn Kaldoun »[87]. Memmi traduce la volontà di una riscrittura della storia nell’ottica di una riconciliazione mitica tra i popoli e di una rivalorizzazione della cultura berbero-giudaica leggibile nel “travestimento” (El Mammi/ Memmi) di una delle personalità più  incontestabilmente arabe che, stando al contratto di parentela proposto dall’autore diventerebbe ebraica. Narrando la vita e le vicende del suo eroe/antenato l’autore stabilisce un complesso e articolato significato di “magrebinità” fondato su una serie di antichi incroci. In questa prospettiva il deserto appare nel romanzo come una doppia rappresentazione metaforica. A livello temporale è ciò che precede la storia, una preistoria che va al di là della memoria, coincidendo nella trama con ciò che precede tutte le gesta dell’eroe essendo il luogo di formazione del protagonista che viene confinato nel deserto. A livello spaziale formula l’ipotesi di un’origine nomade della comunità ebraica magrebina che, come quella berbera, si confonde nelle sabbie del deserto: « Dans l’extrême Nord du Touat, entre Tamentit et Sba Guerara, il a a existé un petit royaume independant, le Royaume-du-Dedans[88].

Ma è evidente che il “Royaume-du-dedans”è un luogo metaforico, di rimessa in discussione delle origini e del potere (tutti i reami che l’eroe incontra seguono un identico percorso di costituzione, auge e distruzione) e soprattutto dell’io.

L’itinerario che seguono i personaggi di Tahr Ben Jelloun ne La prière de l’absent[89] è opposto a quello di Le désert. Per loro il sud, quindi il deserto, è la meta finale che, come la fine del romanzo, si rivela irraggiungibile se non a costo della scomparsa. E’ il titolo stesso ad attirare l’attenzione su questo tema. La preghiera dell’assente è infatti quella che a volte il venerdì, dopo la preghiera solenne, viene recitata per « des corps absents, des corps anonymes, disparus, ensevelis dans une terre lointaine, enveloppés par la solitude des sables ou par les vagues d’une mer houleuse » .[90] Come quella preghiera queste parole chiudono il romanzo a scongiurare, in un ultimo appello, l’assenza e la perdita della memoria, una finalità  che viene perseguita attraverso la storia fantastica di Yamna, anziana prostituta e mendicante, Sindibad e Boby, due vagabondi che “abitano” nel cimitero Bab Ftouh di Fès. I tre vengono investiti di una missione sacra che porterà alla conoscenza della Storia, di se stessi, del Paese. Viene loro affidato un bambino nato da una sorgente e da un ulivo nel cimitero e il loro compito è quello di fargli raggiungere il Sud, dove il deserto racchiude “la substance essentielle”. Inizia così la traversata del Marocco, viaggio iniziatico verso le identità individuali dei protagonisti ma anche viaggio attraverso lo spazio geografico che segna un’identità collettiva da riscoprire nella Storia. A sud si trovano infatti la città (Smara) e la tomba (Tiznit) di Ma –al-Aynayn, filosofo ed eroe della resistenza nella guerra di indipendenza marocchina. L’errare dei protagonisti si muta in viaggio con una meta cui tendere e un compito da portare a termine. Si tratta di un viaggio metaforico e reale: l’attraversamento del mistero dell’esistenza umana dalla nascita alla morte in un territorio specifico, quello del Marocco, in un momento storico in cui questo sembra aver perso i propri confini. La verità cercata nelle sabbie del sud si rivelerà nella verità del viaggio e il mistero del deserto è così lasciato intatto per

assumere lo statuto di luogo irraggiungibile e sacro quale metafora dell’aldilà, cima mobile dove si nasconde l’assoluto. Solo uno dei personaggi raggiungerà il limitare del deserto dove sarà tramutato in polvere.

Un autore tunisino, Abdelwahab Meddeb[91],  proponendo il deserto come finale aperto per il romanzo Talismano, riconosce nel deserto una immensité précieuse che si trova racchiusa nella potenza del modello che il deserto rappresenta per l’uomo magrebino. Scegliendo di andare al sud egli esce dalla città per scoprire nuovi valori spazio-temporali e alleandosi al deserto può uscire da questa Storia e costruire una nuova dimora fondata sul confine dell’io (je/autre) come dello spazio (città/deserto) dove converge ed è in continua crescita l’energia.

 

« Je serais autre à réorganiser l’espace, à redonner vie à la montagne chauve, à en creuser les flancs, à y lire les astres, à y apprivoiser rapaces et serpents, (…) à ramasser les fossiles et les pierres, à méditer caverneux solitaires, à refuser de descendre vers la plaine. Ne serais-je autre que (…) à la recherche des …pierres qui signent la présence millénaire marchant (…) vers le pays secret des minorité. (…) Mais des villes nous n’en construirons que limitrophes aux déserts, aux montagnes, cités asservies aux capacités de ces deux espaces, croissance de feu. »[92]

 

 

2.1.3 Variabili e costanti di rappresentazione del deserto

Possiamo constatare come la presenza del deserto nella letteratura magrebina mostri, attraverso delle costanti e delle variabili, un’evoluzione o semplicemente un itinerario. Quest’ultimo deriva dal legame che il deserto intesse con la realtà socio-politica il cui mutamento nel tempo trova una corrispondenza nel valore simbolico e narrativo variabile che il deserto va ad assumere nel romanzo. Haddad che scrive nell’esilio del nord nel 1957, mentre il suo paese si trova in piena guerra di indipendenza, negando il deserto come luogo di evasione poetica mette in evidenza come l’impossibilità di una libera scelta creativa dello scrittore coincida con l’impossibilità di trovare soluzioni di fronte alla realtà tragica. Nemmeno la  tematica della ricerca della tradizione nel sud che il deserto rappresenta, così presente nei romanzi successivi di autori tunisini e marocchini, può essere per lui una risposta positiva di fronte all'urgenza e al dolore della situazione nel quale lo scrittore si trova. Vent’anni dopo la visione è ancora tragica. Al suicidio letterario del protagonista de Je t’offrirai une gazelle segue quello dell’eroe portatore di valori ideologici de La Traversée. Il deserto nel romanzo di Mammeri è il luogo della riflessione sugli ideali rivoluzionari che hanno ispirato quella guerra. Esso è anche il luogo di presa di coscenza di una realtà sociale ignorata nel nord del paese, in un panorama socio-politico mutato rispetto a quello di Haddad.

Negli anni novanta la realtà tragica è diventata memoria, riattualizzata attraverso  romans témoignages un po’ fuori epoca e con conseguenti indugi sugli elementi mitici divenuti clichés, come nel caso de Les hommes qui marchent. Questi romanzi conservano comunque un valore divulgativo su momenti di passaggio centrali, come quello dal nomadismo alla sedentarizzazione e del mutamento fisico che il deserto insieme alle sue popolazioni  ha subito con lo sfruttamento petrolifero e con l’orientamento modernizzatore della nuova nazione.

Un'altra variabile successiva alla guerra, alla petrolizzazione e alla sedentarizzazione che viene ad introdursi nel romanzo conseguentemente ai mutamenti sociali è quello del turismo che in Timimoun, confrontato al deserto personale del narratore, contribuisce a definire la visione della realtà.

A fronte dei mutamenti e delle evoluzioni storico-sociali, la presenza del deserto nel romanzo coincide con la costante struttura duale su cui si elabora il suo valore simbolico, come la dialettica nord-sud, che necessariamente va a confrontarsi con la realtà variabile. La struttura duale manifesta una dinamicità interna attraverso il racconto “in movimento” che essa produce, a cui corrisponde un percorso di conoscenza dell’io e della realtà.

Il deserto non è infatti lo spazio di un processo univoco di riappropriazione. Esso è il risultato dell’oscillazione tra assenza e presenza della realtà che assentandosi, facendosi perdita, innesca un movimento di ricerca.

E’ questo meccanismo presente nei « romanzi di deserto » che vogliamo studiare da vicino, analizzandolo in due opere recenti che ci permettano di cogliere l’oggetto della ricerca in quello che è stato il presente degli anni novanta.

Se la rappresentazione del deserto ha privilegiato soprattutto l’aspetto simbolico ed è nel mito collettivo che si iscrive il suo valore, qual’è il senso che permette di iscriverlo in un fondo antropologico più profondo dell’avventura personale del singolo scrittore o della letteratura magrebina come etichetta la cui appartenenza ha quasi sempre uno statuto difficile?

La prima domanda che ha mosso questa analisi sul deserto riguarda come avviene la rapresentazione di uno spazio e dei suoi differenti paesaggi nella scrittura. Una volta appurato che non c’è rappresentazione disgiunta dalle influenze della cultura e del fondo antropologico teorizzato da Gilbert Durand[93] e che però al tempo stesso non si può prescindere da un concetto di  deserto nel suo aspetto concreto, reale,  la scelta dell’analisi per trovare un suo significato che fosse rappresentativo della letteratura magrebina e caratterizzante della sua scrittura (che rientrasse cioè nel suo carattere) , è stata fatta su due romanzi che permettessero di mettere a punto un confronto  giocato sull’oscillazione di realismo, cioè tra quell’assentarsi ed essere presente della realtà.

Il concetto di realismo si iscrive in una problematica di contingenze epocali e territoriali. In Algeria il termine di realismo a partire dagli anni cinquanta e sessanta è sinonimo di engagement, nel bene e nel male dell’accezione che spesso sconfina nello stereotipo ideologico. Il realismo impegnato nasce come necessità militante ed aspira a un’efficacia rivoluzionaria, ma spesso può nascondere un grande conformismo e correre il rischio ancora più grande di perdere di vista il reale nei clichés descrittivi.[94]

Negli anni novanta questa idea di realismo si è evoluta attraverso una trasformazione del concetto dell’io verso una problematica più personale. L’atteggiamento di fronte al presente se prima avveniva in un ottica “collettiva” a cui l’io cercava di integrarsi (sperimentandone il fallimento, come l’eroe di Mammeri), ora avviene in una dinamica interamente soggettiva in cui l’io è in cerca di nuovi punti di riferimento. La ricerca di una definizione dell’io non passa più attraverso la rivendicazione identitaria e la sua corrispondente scrittura sovversiva che hanno caratterizzato gli anni ’70 e ’80 della letteratura magrebina. Essa sembra sempre più attratta dai luoghi di occultamento dell’io. Questa situazione ha ovviamente delle ripercussioni anche sulle rappresentazioni della realtà attraverso la scrittura.


Gli autori dei due romanzi che abbiamo scelto per la nostra analisi si iscrivono nel quadro della letteratura magrebina di lingua francese per la forte personalità e l’innovatività della loro opera letteraria. Quella di Mohammed Dib ne ha percorso tutta la storia appartenendo alla cosiddetta “generazione dei fondatori”[95] le cui opere sono le più diffusamente conosciute. Rachid Boudjedra appartiene invece alla generazione successiva definita  “génération terrible”[96] per l’opera di sovvertimento sul genere romanzesco e sulla lingua francese.

Entrambi hanno subito un allontanamento forzato dal paese natale per ragioni politiche (Dib nel 1959 e Boudjedra nel 1965) che li ha messi in contatto con culture, lingue e paesaggi differenti e che ha reso il loro raporto con lo spazio sensibilizzato dall’eserienza dello sradicamento e dell’esilio. Al momento della scrittura di questi romanzi, essi vivono però in due situazioni diverse che testimoniano di scelte differenti e di condizioni spaziali importanti per la sua rappresentazione. Dib scrive dalla Francia, dove ha continuato ad abitare, mentre Boudjedra dall’Algeria dove è tornato nel 1974.

La particolarità dello spazio che si riscontra nella scrittura dei due romanzi si iscrive in due “parole poetiche” che differiscono profondamente nella trascrizione del mondo. Di fronte all’ugenza della costruzione di una nuova realtà per l’Algeria che per entrambi è la finalità e il senso della scrittura, in cui la società, la politica, la cultura in rapporto ai traumatismi che provocano sull’individuo, sono l’oggetto di una remise en question della realtà, Dib la esprime, dopo il primo trittico della sua opera, per mezzo di una scrittura allegorica e simbolica mentre Boudjedra attraverso un realismo sovversivo che aspira a restituire la “coscienza della realtà”.

Un breve excursus sulla loro storia letteraria servirà ad avvicinare i due romanzi in modo più articolato e aderente alla realtà dei due autori.


2.2 DUE DESERTI POSSIBILI


2.2.1 Profilo di Mohammed Dib

L’opera di Mohammed Dib è una delle più antiche della letteratura algerina francofona e allo stesso tempo una di quelle che segnano ancora con grande profondità l’attualità di questi ultimi anni, inserendosi nei dibattiti più tragici del  presente.  Egli nasce il 21 luglio del 1920 da una famiglia di artigiani a Tlemcen, nell’ovest algerino, dove compie i primi studi contemporaneamente all’iniziazione della tessitura e all’esercizio della contabilità. Esercita in seguito diversi mestieri (dal maestro all’impiegato delle ferrovie, interprete dell’esercito, disegnatore di modelli di tappeti) che lo mettono in contatto con diverse classi sociali e fanno maturare un senso acuto dell’osservazione ed uno sguardo critico che diventa impegno militante nell’attività di giornalista a Alger-Républicain (1950-51).

Fin dai suoi primi scritti il suo talento viene riconosciuto e, quando nel 1959 in seguito all’espulsione dall’Algeria, si reca in Francia egli rappresenta agli occhi dell’intelligentia francese una delle coscienze vive dell’Algeria in lotta. Da quell’anno si stabilisce in Francia prima a Mourgis poi nella regione parigina. Dopo il 1970 effettua diversi viaggi, ma è la Finlandia a segnare la sua sensibilità in modo particolare e ad influenzare le opere successive. Con l’Algeria conserva legami profondi e spesso dolorosi anche se i soggiorni col passare del tempo si fanno sempre più rari e brevi finché la disillusione politica e i problemi di salute lo porteranno a rinunciare all’idea del ritorno nel suo paese natale.

La “trilogia algerina” composta da La Grande Maison (1952), L' Incendie (1954) e Le Métier à tisser (1957) pubblicate da Seuil,  lo conscra ad un   successo ancora attuale.[97] Essa  descrive l’Algeria colonizzata e la lenta presa di coscienza progressista. L’itinerario del giovane eroe, Omar, attraversa la miseria urbana, le prime sommosse dei  contadini nelle campagne e l’apprendistato del proletariato nell’industria nascente. La conoscenza della sua opera da parte del pubblico francofono è limitata a questa prima trilogia di romanzi, scritti nel contesto degli inizi della guerra d’Algeria. L’essenziale della sua opera invece viene pubblicata più tardi, a partire dal 1962.

Dib si impone come maestro anche nella poesia e nel racconto, lavorando simultaneamente o in alternanza in ognuno di questi generi. Questa oscillazione tra la poesia e la prosa opera una contaminazione tra l’una e l’altra, ovvero una poetizzazione della prosa romanzesca e una narrativizzazione della poesia attaverso una migrazione di temi quali l’amore folle, l’ossessione della morte, la ricerca di una lingua primordiale, l’attenzione per il senso nascosto delle cose, lo sguardo e il canto come modi privilegiati della comunicazione. Questi temi vanno a formare una rete densa di significati i cui fili si intrecciano da un’opera all’altra in un panorama poetico in cui il motivo stesso dell’incrocio, della tessitura e del passaggio hanno un’importanza fondamentale.

D’altronde questa rete disegna una traiettoria in cui la scrittura assume diverse forme che la critica[98], operando una semplificazione pedagogica, ha catalogato in due  “epoche” principali: una realista e l’altra surrealista apportando a questi due grandi blocchi leggere differenziazioni. Secondo questa schematizzazione l’opera di Dib dalla trilogia algerina fino a Un Eté africain (1959) si iscrive in un’ottica realista; una seconda epoca composta essenzialmente da Qui se souvient de la mer (1962), Cours sur la rive sauvage (1964)  e dalla raccolta di racconti Le Talisman (1966), esplora le risorse del fantastico e della fantascienza per lasciar posto, in un tempo successivo a un neo-realismo che ne La Danse du Roi (1968), Dieu en Barbarie (1970) e Le Maître de chasse (1973) mette in essere un doppio circuito del senso: uno manifesto e l’altro soggiacente che suggerisce un’interpretazione esoterica del mondo.

Infine, dopo Habel (1977), Dib spostando la scena romanzesca fuori dall’Algeria, prima a Parigi poi nelle nevi e nei mari del nord (Les Terrasses d'Orsol,1985; Le Sommeil d'Eve, 1989; Les Neiges de marbre, 1990)  intreccia miti e scritture provenienti da civiltà diverse, per approdare al deserto astratto e surreale di Le désert sans détour pubblicato da Sindbad nel 1992.[99]

La lettura critica “plurale”[100] dell’opera di Dib portata avanti da Charles Bonn tende invece a vedere le differenti maniere espressive di Dib come simultanee, parallele e complementari in modo tale che proprio nell’incontro di modalità diverse di scrittura, l’opera di Dib trovi il suo pieno significato che è quello di una continua ricerca sul potere del linguaggio, della scrittura e della parola.

« Elles [les manières de Dib] ne s’excluent pas, mais produisent dans leur rencontre un sens supplémentaire. Et c’est précisement là que l’on trouvera cette réflexion sur le langage et ses pouvoirs qui constitue selon moi l’unité essentielle, la justification même de l’oeuvre. Unité que perd aussi bien une critique dénotative pauvrement attachée aux contenus successifs de textes dissemblables de ce fait, qu’une critique structurale qui détache un texte de la continuité de l’oeuvre, et en perd dès lors aussi la signification majeure »[101].

 

Il mutamento avvenuto nella scrittura di Dib è consequenziale alla sua espulsione dall’Algeria nel 1959, che lo scrittore ha trasformato con grande slancio vitale e, come egli stesso afferma, lo ha proiettato in una sfida creativa tendente a trasformare il realismo militante in una scrittura di liberazione dell’immaginario.

« Après les témoignages indispensables le moment était venu de tenter l’aventure de la création. N’ayant plus à faire l’avocat d’une cause, nous essayons, j’essaye pour ma part, d’aller à présent vers des régions moins exploréses, de faire oeuvre d’écrivain dans le sens le plus plein du terme ».[102]

 

A partire dal 1962, anno di pubblicazione di Qui se souvient de la mer, l’opera di Dib oscilla tra l’elemento mitico e quello onirico, poiché la rappresentazione allegorica e simbolica è l’unico mezzo per poter esprimere tematiche dolorose come la guerra. Dib si è interrogato in tutte le sue opere sul mistero della scrittura e sul suo potere di decifrare il significato del mondo, un universo ricco di segni da interpretare esplorando diverse forme. La questione fondamentale attorno alla quale ruota la sua opera è quindi quella dei poteri della Parola che condiziona lo statuto dell’intera umanità nel suo rapporto con la realtà, col mondo e con la vita. Il disvelamento del significato Dib lo costruisce attraverso un racconto di immagini, che prevale su quello dell’azione e della descrizione, in cui il ritmo accelerato delle metamorfosi confonde la designazione di un oggetto identitario specifico per restituirne una dimensione universale: uomo, scrittore, attore, narratore e lettore scendono tutti in campo nel gioco della rappresentazione della realtà. Nel confronto con la realtà, ciò che è essenziale per Dib è la risposta fornita dalla scrittura.[103] Dib mostra nella sua riflessione sulla scrittura che percorre tutta la sua opera, la realtà tragica della scrittura che consiste nella separazione tra il dire e il suo oggetto. Il “dire” non nasce da una fusione con la realtà o con un suo significato, ma dal desiderio (di dire, di ritrovare l’unità tra i due termini) e dalla perdita (dell’io dell’autore, del luogo da cui si dice, della memoria di quel luogo: del REALE). La separazione tra la necessità del reale e l’arbitrarietà dei segni  comporta il desiderio,  quello stesso desiderio che mette in essere la scrittura. Questa riflessione sulla distanza tra la scrittura e il referente rappresentato nasce dai primi romanzi in cui l’autore vive la necessità di inventare una parola attiva a partire da uno spazio che si stava costituendo in nazione. Questa parola attiva, secondo l’analisi che Charles Bonn ha fatto della sua opera, passa attraverso una “ruine de la description[104]. La preoccupazione che mostra Dib nella postfazione di Qui se souvient de la mer è proprio il rischio che corre il realismo basato sulla descrizione di tradire l’oggetto del suo dire: “Comment faire ressentir à un lecteur l’immensité de l’horreur? Comment rendre celle-ci sans tomber dans le piège de banalité contenu dans toute écriture descriptive?”. Egli opera così un spostamento fondamentale: gli oggetti esterni, provenienti dal reale, non potendo essere  rappresentati attraverso la descrizione, si trasformano in oggetti interni costitutivi della scrittura. E’ in questo quadro che dobbiamo iscrivere Le désert sans détour che esprime una prevalere della valenza simbolica ed allegorica del deserto rispetto a quella referenziale di luogo fisico, geografico e dell’azione. Questo particolare spazio astratto e sospeso è spesso presente nell’opera di Dib, sotto altre forme come il mare nella trilogia algerina, le distese ghiacciate e le steppe[105] del nord nella trilogia nordica che Beida Chikhi definisce come « espace délocalisé de l’utopie géographique qui renonce aux lois de l’ici à la faveur de lois rêvées bien au delà »[106]


2.2.2 Trama e problematica di Le désert sans détour

Le désert sans détour è caratterizzato dall’assenza di una trama lineare, anche se e in modo molto particolare, un’evoluzione della storia c’è, come ci sono anche degli avvenimenti, dei personaggi e un narratore. E’ il tipo di scrittura dubitativa, con frasi costruite su domande, condizionali e interrogo-negative che mette in crisi ogni riga e lascia il lettore sulla soglia di un senso inafferrabile. Questo procedimento, come vedremo più avanti, fa parte di una strategia di scrittura in cui la rivelazione del significato  avviene come in un attraversamento del  deserto, vivendo l’abbaglio della luce accecante, il dubbio su quale direzione prendere, il vuoto dello spazio bianco che inghiotte.

Il romanzo[107] narra la storia di due strani personaggi, Hagg-Bar e Siklist, che si “iscrivono nel bagliore del deserto”, proprio come la loro invenzione si scrive sulla carta. Di loro non si sa nulla, non si parla del loro passato o del loro carattere. Il narratore li descrive con grande sorpresa e, come se li vedesse per la prima volta non sa di cosa si tratti. Non sono guerrieri, forse sono sopravvissuti, superstiti della scena di guerra - apparentemente scollegata alla storia dei due personaggi - che apre il romanzo.  Vengono descrittti per come appaiono visivamente: quello più grosso, Hagg-Bar,  porta uno smoking, una camicia che scopre un filo della sua grossa pancia, pantaloni blu, un nerissimo papillon, una

keffieh e, più importante di tutto il resto dell’abbigliamento, un ombrello; l’altro, quello alto, veste una salopette e una camicia a righe scozzesi e di lui si dice che sicuramente non si sta dirigendo in officina. I due camminano nel deserto senza avanzare, con continue pause, soste e riprese; è un cammino paradossale, fatto di giri sul posto  che nel corso del romanzo si scopre finalizzato alla ricerca di un accampamento mitico, l’atlal.  Ripresa di un tema canonico della poesia araba, l’atlal è per Hagg-Bar il luogo di svelamento della scrittura e per Siklist l’incontro di altre persone. Questa visione divergente dell’accampamento porterà i due a separarsi e a compiere distintamente la propria ricerca. Hagg-Bar  l’ha investita di troppe aspettative, egli vuole infatti trovare la sorgente del senso, ovvero la scrittura misteriosa nascosta nella sabbia, decifrarla con  l’ombrello per poi mettersi sulle tracce dell’autore che l’ha scritta. Si confronterà così con qualcosa di più grande di lui, con la coscienza del deserto: la parola divina dell’origine e finirà per soccombere, scomparire per essere trasformato in idolo. Siklist ha invece semplificato l’oggetto  della ricerca. La proposta di Hagg-Bar gli sembra impossibile da realizzare, egli ha bisogno di incontrare altri uomini dei quali ha l’impressione d’aver sentito le voci. Senza saperlo egli cerca l’altro aspetto che il concetto di atlal incarna, cioè la ricostituzione della comunità. Così nell’ultimo capitolo egli si ritrova tra una moltitudine di persone alle quali racconta, nonstante il dubbio di non essere capito, della sua strana storia con Hagg-Bar e propone loro di fare un po’ di strada insieme. Sarà il canto e il bagliore di note inudibili a sciogliere  la difficoltà comunicativa e a terminare il romanzo.

Parallelamente a questa narrazione fatta di interventi di un narratore e soprattutto dei dialoghi tra i due personaggi, nel romanzo ne è presente un’altra che viene sviluppata in modo distinto tanto dalla suddivisione capitoli che dal carattere tipografico utilizzato. Le due parti si  alternano : ad un capitolo scritto in corsivo ne succede uno in tondo, così per nove volte che formano complessivamente 18 capitoli. La parte che riguarda i due personaggi  è scritta in tondo, mentre quella in corsivo compone un lungo monologo interiore di un narratore dalla soggettività –se così possiamo dire-  multipla e variabile. L’io narrante oscilla infatti tra i pronomi je/nous/on che preannunciano l’oggetto della ricerca che anche lui sta compiendo nel deserto che ruota attorno ad una riflessione sull’identità, personale e collettiva. Egli si trova in una situazione opposta e allo stesso tempo simile a quella dei due personaggi. Se loro camminano nel deserto, pur girando a vuoto, lui è immobile ma si muove attraverso l’immaginazione e il sogno.

« C’est comme si j’avais eu à parcourir cet infini et à présent me voilà revenu, de nouveau arrivé ici, devant cet autre infini, l’infini de sable: mais sans avoir bougé de ma place » (p.37)

 

La contrapposizione di immobilità /movimento e il loro ribaltamento crea un discorso che unisce le due parti e, come vedremo più avanti, apre un’ulteriore via interpretativa del romanzo basata sull’analisi degli spazi esterni ed interni e sul confine.

Hagg-Bar e Siklist  camminano senza avanzare: « Faire et refaire des tours sur place, n’est-ce pas le sens même de leur marche, au bout du compte? » (p.75).

Il falso movimento dei personaggi è costitutivo della scrittura stessa. La scrittura di Dib appare come finalizzata ad instaurare la perplessità per mettere il lettore in una posizione di ascolto e in attesa della rivelazione del senso che paradossalmente è la stessa posizione in cui si trova il narratore: in attesa davanti al deserto. Il narratore afferma infatti di trovarsi di fronte a una rete che lo separa dal deserto. Come Hagg-Bar e Siklist, anche lui si trova in una situazione di attesa, anche se la loro è un’attesa vaga di qualcuno o di un segno che viene messa continuamente in dubbio dall’idea che ciò che aspettavano in realtà sia già successo e che, come tutta la materia del loro discorso, viene ridicolizzata dall’assurdità che li contraddistingue. Se il loro dunque è un discorso immerso nell’assurdo, dei dialoghi non consequenziali e della situazione teatrale, e nel surreale testimoniato dalla presenza dell’ombrello,  quello del  narratore è caratterizzato da toni mistici ed onirici.

Il sogno è un mondo parallelo a quello della veglia, che in questo caso non è un semplice termine d’opposizione ma è la condizione esistenziale del narratore[108].

Le visioni dei sogni e degli spazi in cui vengono rappresentati hanno connotazioni positive e sono una via di comprensione della vita davanti alla rete. L’attesa del narratore, che attraverso l’uso del pronome plurale si collettivizza, è animata da una promessa annunciata da un angelo, e numerose sono le occasioni in cui viene invocato l’Arcangelo che gli appare verso la fine del romanzo specularmente alla scomparsa di Hagg-Bar. L’attesa compone anche un discorso sul tempo, un presente atemporale frutto di una ciclicità: « nous sommes d’autres gens venus remplacer d’autres gens qui nous auraient précédés et qui auraient été nous-mêmes » (p.37),  e sullo spazio privo di riferimenti, tautologico, un deserto sans détour nell’accezione di “semplicemente”.

In un gioco di cancellazione e riscrizione del senso le due parti che compongono Le désert sans détour, muovono la stessa ricerca. Se la finalità del cammino di Hagg-Bar è di trovare la source du sens, quella della voce narrante nell’attesa sperimenta il sogno e la visione protendendosi verso un’unità originaria dell’io in grado di dare un senso al presente e al passato.

La fine del romanzo disvela la necessità del riconoscimento di una molteplicità dell’io e delle sue trasformazioni che, come in un passaggio di stato della materia, mutano l’essere nella sua forma costitutiva e segnano una morte della forma precedente. Se si trattasse del passaggio da una materia solida ad una liquida potremmo parlare del punto di fusione come momento fondamentale per Dib. E’ in quel momento di passaggio, sulla linea del confine, proprio dove si trova la voce narrante, che l’essere è presente alla sua memoria e al tempo stesso può cancellarla. E’ nella perdita che il narratore compie il suo destino: consegnare il suo racconto di un io  sperduto in tanti altri e diviso dalla distanza e dal tempo, un io che si ritrova per poi dimenticarsi e quindi riperdersi. Così si conclude la narrazione in corsivo:

J’oublie ce que j’ai vu.

J’oublie ce que j’ai entendu.

Je me souviens et j’oublie. La pierre égare et retrouve

sa mémoire et s’égare elle-même…(p.129)


2.2.3 Profilo di Rachid Boudjedra

Rachid Boudjedra nasce a Ain-Beida, nell’est algerino, il 5 settembre 1941 dove già a quattro anni frequenta la scuola coranica e in un secondo momento la scuola elementare francese congiuntamente a un corso d’arabo. Il padre lo iscrive al liceo Sadiki di Tunisi in cui tutte le materie sono insegnate sia in arabo che in francese mentre in Algeria l’insegnamento dell’arabo è proibito nelle scuole dalla dominazione francese.

Dopo l’indipendenza dell’Algeria nel 1962, ritorna al paese natale e intraprende degli studi filosofici che proseguiranno a Parigi. Il suo iter universitario termina con la presentazione di una tesi su L.-F.Céline. Inizia quindi ad insegnare filosofia ma nel 1965, in seguito alla presa di potere di Boumédienne, è costretto a lasciare l’Algeria e soggiorna in Francia e in Marocco. Il divieto di rientrare nel paese natale dura diversi anni, fino al 1974 anno in cui gli viene affidato l’insegnamento nell’università di Algeri, gli vengono conferiti degli incarichi al ministero dell’informazione e della cultura e  partecipa attivamente alla rubrica culturale della rivista settimanale Révolution Africaine.

Boudjedra inaugura la sua carriera letteraria con una raccolta di poesie Pour ne plus rêver (1965).[109] E’ autore di qualche saggio: La Vie quotidienne en Algérie (Paris, Hachette, 1971), Naissance du cinéma algérien (Paris, Maspéro, 1971), Journal palestinien (Paris, Hachette, 1972). Ma è la sua opera di romanziere che lo fa conoscere in modo particolare. Il suo primo romanzo, La Répudiation, pubblicato da Denoël nel 1969,[110] è coronato dal premio Enfants terribles. Presso lo stesso editore verranno pubblicati anche i romanzi successivi: L'Insolation (1972), Topographie idéale pour une agression caractérisée (1975)[111], L' Escargot entêté (1977)[112], Les 1001 années de la nostalgie (1979), Le Vainqueur de coupe (1981), Le Démantèlement (1982), La Macération (1984), La Pluie (1987), La Prise de Gibraltar (1987), Le désordre des choses (1991) FIS de la haine (1992) Timimoun (1994).[113] Boudjedra ha inoltre avuto un grande successo come sceneggiatore cinematografico: Chronique des années de braise con la regia di M. Lakhdar Hamina ha ricevuto la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1975 e Ali aux pays des mirages il Tanit d'Or del Festival de Carthage nel 1980.

Avendo vissuto le drammatiche vicende della colonizzazione e della guerra per l’indipendenza con un impegno politico diretto, la sua è una scrittura della rivolta, una scrittura sovversiva che nasce dall’idea di letteratura come eccesso e scavalcamento delle regole e delle ideologie. “Le verbe boudjedrien, c’est cette parole particulière qui s’est constituée dès La répudiation, cette parole

électrochoc, comme eut à l’écrire la critique à l’époque, cette parole qui laisse rarement indifférent le lecteur, parce qu’elle naît d’un rapport subversif de l’auteur à la machine littéraire”[114].  Questo stesso rapporto lo intrattiene con la lingua. Perfetto bilingue, Boudjedra ha scritto in francese fino al 1981, per scegliere poi l’arabo a partire da Le Démantèlement pubblicato nel 1982, come prima lingua e il francese come lingua nella quale tradursi -poiché è lui stesso ad assicurare la traduzione nelle due lingue- gesto che in qualche modo conferma la fedeltà allo strumento di comunicazione anteriore e, come afferma Afifa Berheri[115], alla categoria dei lettori francofoni. Questa scelta ha sicuramente connotati politici ma, sul piano letterario, traduce in pieno tutta la dinamica di un entre-deux. L’uso dell’una o dell’altra lingua è segnato da una nostalgia originaria e dà  vita ad una ricerca identitaria nell’oscillazione tra l’io e l’altro, tra una lingua e l’altra. La letteratura per Boudjedra è una passione per l’altro, per la gente e per il mondo che non può non essere politica nel senso d’essere sovvertitrice dell’ordine per come esso viene dato, per riuscire attraverso l’atto poetico a capovolgere il significante e sconvolgere i significati. In questo senso tutta la sua opera è profondamente e coscientemente iscritta in una problematica politica, in una rilettura storica e retorica della realtà magrebina in generale e di quella algerina in particolare di cui scava le contraddizioni senza mai porre delle chiusure che impedirebbero di esplorare il reale che si fa evanescente lungo i contorni.

E’ uno scrittore che ha esplorato registri diversi, dalla parodia al realismo più crudo, quasi scabroso a quello iperbolico, in cui però si possono riconoscere delle figure ripetute e reiterate al punto di essere “metafore ossessive” quali quelle del sesso e del sangue e dell’autorità in tutte le sue forme. Esse disegnano, secondo Kangni Alemdjrodo, la parabola romanzesca dell’Algeria moderna, dominata dal padre castratore.[116] Il radicamento alla realtà unito all’invenzione formale fanno sì che la sua opera,  lontana dall’opporsi al realismo, lo porta anzi alle estreme conseguenze.[117]


2.2.4 Trama e problematica di Timimoun

Il narratore-protagonista di Timimoun è una guida turistica, un quarantenne alcolizzato e roso dai suoi fallimenti sentimentali e professionali che percorre  il deserto lungo la pista che corre da Algeri a Timimoun passando da El-Goléa a bordo di una vecchia automobile acquistata in Svizzera. Ex aviatore militare cacciato dall’esercito per l’uso dell’alcol e per altre stravaganze, si è deciso a fare la guida dopo aver percorso tante altre volte il deserto in solitudine, prima con l’aereo poi con Extravance, la sua Land-Rover. Il racconto - in prima persona- si sviluppa parallelo al viaggio che si sta compiendo con continue incursioni nel passato del narratore. Il viaggio nello spazio avanza mentre quello nel tempo va a ritroso, ad esplorare le ragioni profonde delle paure e sofferenze di un uomo che si definisce un fallito e un diseredato.[118] La guida trasporta diversi turisti tra i quali Sarah, una ragazza ventenne per la quale prova, per la prima volta nella sua vita, un sentimento di attrazione che si sviluppa nel corso del viaggio per risolversi in un nulla di fatto finale. La ragazza infatti non lo corrisponde e proprio nell’oasi di Timimoun gli preferisce un giovane ballerino nero. Il ritorno verso Algeri è segnato dalla delusione per l’amore mancato e per la fine del viaggio mista ad un senso di sollievo.

La diegesi è costruita nella forma di monologo che caratterizza molte delle opere dell’autore[119], i pochi dialoghi presenti sono riportati nella forma indiretta e intersecano il racconto di episodi della vita del protagonista che scorrono durante il viaggio nel deserto.

Possiamo riconoscere nel romanzo, che è diviso in 7 capitoli numerati e suddivisi da due pagine bianche, tre fasi che ordinano la narrazione lungo l’asse spaziale del viaggio:

1.     l’andata verso Timimoun, capitoli 1, 2, 3.

2.     la sosta a Timimoun, capitoli 4, 5, 6

3.     il ritorno verso Algeri, capitolo 7.

Tutti gli argomenti principali si delineano nei primi tre capitoli e si sviluppano poi in quelli successivi mostrandosi per sovrapposizioni sia spaziali che temporali.

La trama principale, la storia d’amore con Sarah, e la trama secondaria, la storia della vita del protagonista, si sovrappongono alla “mappa spaziale” dell’itinerario turisico nel Sahara nel presente narrativo e ai luoghi del passato che vengono rievocati nel racconto: Algeri, Costantine e Ginevra. Sia la trama principale che quella secondaria  fanno luce, alimentandosi dell’energia attiva dello spazio desertico, sull’io del protagonista e sul presente drammatico degli attentati terroristici. In queste intersezioni di temi e di luoghi, il deserto non è semplicemente lo sfondo del racconto e il luogo dell’azione -precisato da puntuali indicazioni toponimiche-, ossia un quadro spaziale, ma un “catalizzatore del discorso”, come afferma Rym Kheriji[120] e aggiungeremmo dei vari discorsi che si articolano intorno ad ogni nucleo tematico fino a costituire un complesso sistema di valori simbolici e narrativi.

Il romanzo inizia con una scena notturna in cui il protagonista è alla guida di Extravagance in pieno deserto, alla fine di una giornata di viaggio con i turisti che trasporta. La descrizione passa dall’interno all’esterno del veicolo finché si apre il  ricordo dell’acquisto della sua vecchia automobile, avvenuto in un bar di Ginevra, da un venditore nostalgico che cede solo alla sesta vodka. Cerca di non farsi distrarrre dai ricordi che si espandono come lo spazio che ha intorno a sé, sulla piccola pista isolata che sta percorrendo in piena notte. Ma un sentimento di paura lo invade, una paura che conosce da molto tempo e che è stata una delle ragioni per le quali ha scelto il deserto dove può sfogarla e vincerla nelle corse vertiginose sulle dune in cui si sottrae a se stesso. I ricordi, come quello delle punizioni paterne, di Algeri e di Costantine dove è cresciuto in una famiglia in cui il padre era assente, si innestano sulla volontà di aderire al presente fatto di un deserto notturno in cui la sua atomobile avanza filtrando tra gli elementi minerali e dello sguardo della ragazza nello specchietto retrovisore che porta quasi lo stesso  nome del deserto in cui si trovano. La digressione sulla famiglia viene bruscamente interrotta dall’annuncio alla radio dell’assassinio del professore Ben Said da parte dei terroristi islamici. L’immagine delle lacrime di Sarah che scivolano e rimangono sospese chiude il primo capitolo.

Il successivo è dedicato al racconto dell’innamoramento per Sarah e del suo rapporto con il sesso femminile fino a quel momento. Per spiegarlo si apre una digressione sulla sua adolescenza e il ricordo va alla prima esperienza in un bordello con i due inseparabili amici Kamel Rais e Henri Cohen, dove ha provato una forte repulsione per il sesso. L’inserimento della ripetizione dell’annuncio radiofonico precedente su una descrizione del corpo che esprime ripugnanza, ne aumenta tutta la gravità e unisce la storia personale e il personale dilemma del sesso del protagonista a quello collettivo della storia dell’Algeria.

 

« cette viande, cette chair tumefiée comme saccagée mutilée à coup de couteau… ça fait cafouillis…désordre…

LE PROFEESSEUR BEN SAID A T SAUVAGEMENT GORG CE MATIN À HUIT HEURES TRENTE À SON DOMICILE SOUS LES YEUX DE SA FILLE... »(p.31)

 

Il racconto continua sulla storia dei due amici per tornare al presente alla vista dell’indicazione El-Golea – Timimoun che lo fa ripensare a Sarah, a se stesso a quarant’anni nel deserto dove ha scelto di stare per la sofferenza, alla morte del fratello e al giorno del funerale segnato dal ricordo del sangue. Il capitolo termina con una precisazione temporale: 21h52 che segna l’imminenza della sosta notturna nel deserto.

Nel terzo capitolo ha grande spazio il ricordo del funerale del fratello che si lega al sapore di vodka del risveglio nel presente.  Il narratore cerca di spiegare il perché della sua scelta del deserto collegandola ai traumi della sua vita e lascia intendere che forse la  sua sepoltura nel deserto, « j’avais décidé de m’interrer dans le Sahara » (p.50), è stata la reazione alla sepoltura del fratello insieme al desiderio di allontanarsi dalla città e a quello della solitudine. Di nuovo tutto si mischia e il discorso su Sarah passa a quello sul Sahara, il “suo” Sahara diverso da quello che è per i turisti.

Anche il quarto capitolo si apre su un ricordo, questa volta dell’adolescenza con i due amici in una fumeria. Venticinque anni dopo vuole ripetere la stessa esperienza con Sarah, portandola in una fumeria clandestina di Timimoun. Ma quando la vede ballare avvinta, splendente e libera, capisce che non rientrerà con lui ma col ragazzo nero della sua età che canta, danza e suona l’amzad a meraviglia. Così rientra all’hotel per bere in solitudine ed esplorare il suo primo sentimento di gelosia. Un altro annuncio di attentati terroristici proveniente questa volta da un giornale si mescola alla sua già tormentata esistenza.  Nella prima apparizione di Timimoun, l’oasi viene raffigurata come eden che ha inghiottito Sarah e ha lasciato il protagonista immerso nel suo dolore che nell’oasi diviene il dolore del mondo intero.

Nel quinto capitolo è l’immagine del volto del narratore ad ocupare il rettangolo dello specchio retrovisore, guardandosi ripensa al suo passato e ricostruisce nuovamente i traumi principali della sua vita. Si sofferma in una nuova e più estesa descrizione di Timimoun sul sistema di canalizzazione delle acque che simbolizzano un’armonia perfetta che unita agli odori dell’oasi portano il protagonista a rivivere un ricordo piacevole dell’infanzia.

Il sesto capitolo aggiunge nuovi elementi al discorso mnemonico che ruota sempre intorno al nucleo centrale della famiglia, qui del padre in particolare che aveva proibito al fratello di frequentare la cantante di cui era innamorato. Mentre la sua gelosia  per Sarah aumenta, il narratore dichiara in modo più esteso tutto ciò che il deserto significa per lui, fino a concludere il capito con una scena di morte per l’ennesimo attentato che cerca di superare all’ombra di un cimitero berbero in pieno deserto pietroso.

L’ultimo capitolo è quello che risolve l’intreccio della storia con Sarah. Il viaggio sta per concludersi, anche se mancano  più di 1300 km, ma già l’essere sulla pista che conduce verso Algeri crea quel sentimento a metà tra la delusione e il sollievo che caratterizza ogni ritorno che la guida ha vissuto. Lanciando ancora il suo sguardo a Sarah nel retrovisore scopre la sconvolgente somiglianza tra lei e il suo amico d’adolescenza Kamel Rais. Come una liberazione, tale rivelazione lo fa sentire un altro uomo e fa ritrovare alla sua immagine un aspetto naturale, sollevata dallo sguardo obliquo e appicccicoso che sentiva d’avere a causa del suo innamoramento.

Su questo finale ambiguo che lascia aperta una possibile scoperta dell’omosessualità del protagonista, Boudjedra chiude il romanzo. La storia d’amore, mancata ancor prima di cominciare, serve in realtà da pretesto al protagonista per rivelarsi a se stesso, per raccontarsi nello specchio retrovisore dell’automobile ai grandi occhi blu di Sarah che diviene così un’intermediaria che provoca la narrazione, ovvero una destinataria intradiegetica come lo era stata Céline nel primo romanzo di Boudjedra.[121]


Possiamo constatare come le differenze dei due romanzi riguardano la formulazione del discorso che ne LDSD è composta dal monologo del narratore e dai dialoghi dei personaggi e in T dal monologo del narratore e da rari dialoghi indiretti. La trama ben visibile nel romanzo di Boudjedra, da cui emerge l’avanzare particolare della guida sulle piste del deserto, è occultata nel romanzo di Dib per lasciare spazio all’alternarsi delle due parti parallele che compongono una poetica del confine. Tali differenze investono anche la diversa rappresentazione dello spazio desertico che in T è descritto nella varietà delle forme e dei paesaggi, mentre ne LDSD viene tenuto in sospeso attraverso espressioni che mirano a negarne una definizione.

Pur in questa diversità, i romanzi presentano le costanti riscontrate negli altri romanzi di deserto, ovvero disegnano un percorso dell’io narrante e dell’io dei personaggi che, mossi da una ricerca a cui corrisponde un movimento nello spazio, approdano a una nuova dimensione. Nel caso di LDSD si tratta di un’erranza, un girare su se stessi per perdersi e ritrovarsi « faire des tours en rond », nel caso di T di un viaggio lungo un tragitto definito che coincide con un’erranza interiore del protagonista. Questo movimento è spinto verso la ricerca di un oggetto mancante, un’origine, che realizza il compimento della dinamica di entre-deux. Rispetto ai romanzi precedenti la ricerca compiuta in quel movimento si configura come quella di un io multiplo e frammentato. E’ grazie alla definizione dell’io che si arriva a cogliere anche il senso della realtà storica. Essa si manifesta infatti come un’intrusione operata visivamente nel testo nel caso di T ed in maniera metaforica attraverso l’intertesto dei sogni di LDSD.


CAPITOLO III

Percorsi spazio-temporali


3.1 Dinamicità e staticità: gli spazi soglia dell’enunciazione.   

In entrambi i romanzi il luogo dell’enunciazione[122] è uno spazio liminale, una soglia che sta tra lo spazio interiore del narratore e quello esterno del deserto.

Possiamo ipotizzare che questo terzo spazio, lo spazio intermedio, sia un campo di potenzialità in cui si intrecciano i significati dell’io con quelli del mondo esterno.  Esso si concretizza in due oggetti ben definiti che sono un trampolino per le parole dei narratori: il veicolo[123] in T e la rete ne LDSD.

Nell’economia della storia di T Extravagance è il compromesso del personaggio-narratore con la realtà, è cioè l’oggetto che lo identifica socialmente come guida turistica nel deserto che  trasporta i viaggiatori  « d’un bout du Sahara à l’autre » (p.14). Questa professione è un ripiegamento conseguente al fallimento come pilota, licenziato a causa delle sue eccessive peripezie aeree. Una lettura trasversale di questo dato nella storia dei protagonisti di romanzi sahariani mostra come da un lato Extravagance sia il mezzo sostitutivo dell’aereoplano o del cammello nel modello romanzesco dell’avventuriero e dall’altro palesi l’impossibilità di una continuazione di

 

tale modello. Il protagonista di T è un aviatore decaduto che vive come una

morte il passaggio dagli spazi aerei a quelli del suolo: « J’avais l’impression d’avoir terminé ma vie, le jour où j’ai acheté ce vieux car à Genève » (p.50).

Fin dall’inizio del romanzo è chiaro però che questo veicolo non è un semplice mezzo di trasporto ma un oggetto-simbolo che, possedendo una storia e un’identità proprie, si configura come l’alter-ego del protagonista e la sua dimora mobile.

« Une grosse guimbarde qui a plus de quarante ans d’âge. Le même âge que moi. Au fond Extravagance me ressemble ». (p.88)

« J’ai sillonné le désert, tout seul, à bord de mon car Extravagance, y dormant, y mangeant et m’y soulant. » (p.55)

 

 La sua storia inizia in un bar di Ginevra, dove il protagonista l’ha acquistata per lo stesso importo che ha dovuto pagare per la bevuta necessaria alla contrattazione[124]. Già per il precedente proprietario Extravagance aveva caratteri quasi umani « le vendeur pleurait Extravagance comme s’il s’était agi de sa propre fille » (p.88), che il protagonista esalta coronandola con un battesimo in piena regola, in un bar di Algeri (p.15, 88). Questo primo spostamento su grandi distanze, dalla Svizzera all’Algeria, è l’inizio del suo ruolo di complice  nella condizione di perpetuo movimento del protagonista. Il veicolo possiede così un nome proprio quasi a sostituire l’assenza di quello del narratore; un nome intimamente legato al tipo di movimento del protagonista nello spazio che è un extravaguer, composto da “vago” nel senso latino di errare, vaguer, ed “extra” verso l’esterno.[125] Inoltre la desinenza  ance dà l’idea di una femminilità racchiusa dentro un oggetto mascolino, che ricorda lo stesso tipo di bellezza di Sarah e che fa oscillare l’utilizzo del pronome il (car) ed elle (Extravagance).

Extravagance corrisponde ad un’idea della modernità adattata alla personalità del protagonista che costruisce su un modello di carrozzeria risalente agli anni della sua giovinezza, un motore nuovo composto di pezzi di ogni tipo, tra cui anche resti di aereoplano che ne sanciscono la natura ambigua di intermediazione tra la terra e il cielo. Il significato di alter-ego è riscontrabile anche nel gioco di rimandi tra car/carrosserie e je/corps. Lo squilibrio tra il suo aspetto interno di «vieux tacot» e quello esterno di « bolide surdoué et impressionnant »[126]; « atroce, effroyable, perfide; souple dans sa foudroyante bestialité générique » ricorda il protagonista nel suo aspetto esteriore « tête de vieillard; allure de vieille tortue au cou criblé; vieillard prétentieux et libidineux » (p.89) e nell’aspirazione interiore di come vorrebbe essere per piacere a Sarah, che ha preferito invece concedersi al giovane musicista, « superbe éphèbe noir» (p.91).

Ma è nella possibilità del movimento « entêté, compliqué et incompréhensible »


(p.16) che Extravagance risulta essere l’alleato indispensabile del narratore, ciò che lo tiene in vita e gli garantisce la sopravvivenza che risiede proprio nel continuo movimento nel deserto:

« il me fallait survivre et cahoter éternellement sur les pistes sahariennes » (p.119).

« Avec sa carrosserie déglinguée et son moteur impeccable, il [ce car] poursuit son mouvement d’une façon entêtée, compliqué et incompréhensible. Sous cette forme atroce, effroyable, perfide de l’apparente immobilité. Alors qu’il donne, en même temps, l’impression qu’il vole telle une machine souple dans sa foudroyante bestialité générique. »(p.16).

 

Lo spostamento nello spazio a cui  Extravagance provvede non è una scontata conseguenza meccanica ma il frutto di una combinazione di caratteri che configurano il senso generale della complessità e del mistero del movimento che il protagonista vive con stupore. Extravagance racchiude in sé il paradosso di un’immobilità veloce « sorte d’immobilité donnant l’idée même de vitesse » (p.18) che nasce dalla doppia relazione che ha con l’interno e con l’esterno nel quale « s’engouffre, se propulse, filtre, avance, happe tout ce qu’il dépasse ». All’interno dell’abitacolo la percezione del movimento viene falsata, fino quasi a perdersi per la condizione diversa rispetto a quella esterna che vi si stabilisce da cui nasce l’idea d’immobilità. All’interno l’automobile è una nicchia raccolta rispetto al deserto, « le plus grand et le plus désertique du monde » (p.15) che regna all’esterno. La brutalité sauvage (p.18) di Extravagance le permette di filtrare la smisurata calcinazione del mondo, incarnata nei fenomeni astratti e negli elementi minerali che compongono un deserto che fa paura al protagonista, « pleurnichard (p.90), frileux, moite, poisseux » (p.37)[127]. Essa ha un ruolo protettivo nei confronti dell’esterno, è quasi una corazza « ses formes trapues et grossières » (p.18) che preserva la sua l’interiorità dal pericolo del deserto. In questa condizione tra l’immobilità e la velocità, Extravagance, come una finestra mobile,  si configura come il luogo preferenziale per il movimento dei pensieri. Per il protagonista è proprio un oggetto dell’interno dell’automobile, lo specchietto retrovisore, che innesca un movimento a ritroso nel suo passato ed un confronto col presente. « J’avoue que je n’aime pas me regarder dans une glace. A quoi cela servirait-il? J’ai toujours eu ce visage-là ». A questa affermazione, posta significativamente all’inizio di un capito prevalentemente orientato al racconto del passato (su 15 pagine solo 3 sono dedicate al presente) segue il racconto di alcuni momenti fondamentali della sua vita  come l’acquisto di Extravagance, la morte del fratello, gli anni passati nell’aviazione che lo fanno riflettere sull’immutabilità del suo viso.

 

« Je n’aime donc pas me regarder dans une glace mais avec tous les rétroviseurs gigantesques et vieillots qui affublent Extravagance, il m’arrive de tomber sur moi-même, comme par hasard. J’ai toujours eu cette tête-là. Je me suis toujours ressemblé » (p.88)

Egli riscontra una continuità nel tempo che ha avuto, forse, un’origine nell’esperienza traumatica della morte del fratello. Gli altri avvenimenti della sua vita non sono riusciti a farglielo mutare ad eccezione del deserto che è « terrible pour faire vieillir les gens. Il les rétrecit, les assèche et les fripe » (89) e dell’inaspettato innamoramento che ha  peggiorato la sua immagine fino a renderla insostenibile e a far sì che egli non ami guardarsi allo specchio « je suis devenu à cause de cet amour désespéré, une sorte d’épouvantail…Je me répugne franchement » (p.90). Lo specchio è “retrovisore” in due sensi, verso il passato, cui la sua immagine presente lo rinvia e dietro di sé, verso lo sguardo di Sarah che sta alle sue spalle. Il sistema di immagini indirette dello specchio (che accentua il carattere di filtro del veicolo) costruisce una rete di richiami nel passato per poter  spiegare il presente del narratore che si trova poi confrontato allo sguardo dell’altro.[128] Lo specchio è infatti invaso dallo sguardo della ragazza che scava nel suo aspetto esteriore per scorgere i sentimenti che egli le nasconde.

« Sarah n’arrête pas de me fixer longuement dans le rétroviseur. Comme si elle » voulait fouiller, fouiner dans cette gueule ravagée pour y trouver les traces de la souffrance et de la nausée » (p.92);

« De temps à autre je surprenais Sarah en train de me fixer dans le rétroviseur (p.111).

 

Il narratore non può guardare se stesso senza ricevere il riflesso dell’altro: la definizione dell’io passa attraverso il confronto problematico con l’alterità che porta il protagonista a sentire insopportabile la propria immagine per poi scoprire la propria verità intima. Alla fine del romanzo il protagonista intravede infatti la sua probabile omosessualità, una verità che uccide l’immagine di Sarah nel momento in cui cessa di essere necessaria alla sua ricerca.

Il veicolo si afferma dunque come un complesso ed articolato luogo dell’enunciazione che definiamo come dispositivo di conversione. Esso infatti attiva gli spostamenti dall’esterno all’interno e viceversa, dalla mobilità esteriore all’immobilità dell’interno, dall’immobilità dell’interno al movimento nel tempo. Il  valore simbolico del nome del veicolo è intimamente legato alla sua funzionalità narrativa; i suoi attributi legati alle caratteristiche dell’io narrante.


Lo spazio di enunciazione ne LDSD è simbolizzato dalla rete. Il suo valore funzionale è lo stesso del veicolo di T, ovvero è il il mezzo che attiva la produzione del discorso. A livello narrativo la rete è l’origine della formulazione di un discorso immaginario, composto di allucinazioni, visioni mitiche ed oniriche contrassegnate da un attraversamento, come quella del narratore che vede attraverso le maglie due uomini impegnati in uno strano gioco a palla con un cucchiaio, « Mais à travers les mailles du grillage apparaît je ne sais quoi. (…)Deux hommes en blanche culotte se renvoyent une balle au moyen d’une grande cuiller plate » (p.26) ; oppure quella di un ermafrodito in un onirico paradiso : « l’homme, jeune comme nous l’apercevons à travers le filet du treillage, un éphèbe nu autant que défendu, habillé par sa nudité » (p.38).

E’ di fronte alla rete che il narratore si dice e costruisce la sua ricerca tra un al di là e un al di qua della rete, in se stesso confrontato al deserto dal quale è separato.  E’ attraverso le sue maglie che il senso si rivela, come avviene d’altra parte lo svelamento del testo attraverso l’intreccio di rimandi e di richiami « à travers ses entrelacs (…) se révèle ce qui sans conteste veut se faire adorer » (p.69). La rete è la causa della sua immobilità che stimola il narratore che gli sta di fronte ad essere oltrepassata. E’ l’ermo colle leopardiano che permette al pensiero di aprirsi verso l’infinito. Così essa può divenire il confine tra l’inferno e il paradiso che si dividono i due lati dello spazio: « par-delà ce grillage, est l’enfer, nous nous sommes alors, décidemment, assuré le séjour au Jardin » (p.69). L’inferno è rappresentato dalla visione di una macchina che sorge dal nulla del deserto, « une araignée qu’on aurait pas tort de qualifier d’infinie, telle qu’elle semble se faire de soi à partir de soi même (…) croître jusqu’au ciel » (p.70).

 La rete è l’unico oggetto identificato e riconoscibile per il narratore nella situazione incomprensibile di attesa in cui si trova.

« Nous nous sommmes assis côte à côte sur cette aire, derrière ce grillage.(…) Nous attendons. “Ce qui doit se passer”. Quoi: nous ne le voyons pas. Il n’y a que le désert. Il n’y a rien à voir. Rien ne se passe. Rien ne se voit. Rien, sinon le grillage qui nous en sépare. » (p.12)

 

Ma, come tutti gli oggetti che compaiono nel romanzo, essa  viene messa in dubbio attraverso un uso paradossale del linguaggio. Di fronte all’immensità di un deserto più grande di quello conosciuto « je sais ce qu’est un désert: je viens aussi d’un désert. Nous sommes seulement devant un désert plus grand » (p.12) la funzione contenitiva e protettiva della rete « contenus par le même grillage » (p.25)  è solo apparente poiché si tratta di un « mur transparent » (p.25) che codifica un ostacolo, una barriera. Essa si configura poi come un appiglio « me doigts aggrippés aux mailles du grillage » (p.72), come un appoggio « le front appuyé au grillage » (p.72) senza spessore se confrontato alla vertigine della profondità dell’io « une résille jettée sur unne vertige, au bout de nous-mêmes » (p.116). Non è quindi nel valore semantico che la rete può schiudere il suo significato poiché esso viene costruito attraverso la contraddizione e il paradosso. Si tratta infatti di un oggetto che separa e contiene, di una barriera che non chiude un passaggio, di una rete che pur separando non separa. Guardando il testo nel suo insieme, ovvero il testo come rete, possiamo riconoscere proprio in questo elemento l’oggettivazione di uno spazio testuale di divisione creato dalla suddivisione in  due parti del romanzo. In questo ulteriore confine attraverso il quale l’autore ha costruito il testo è visibile un senso di unità occultata che obbliga il lettore a continui attraversamenti da una parte all’altra. Le due parti rappresentano la condizione di immobilità del narratore da un lato e quella di movimento dei personaggi dall’altra.  Questa stessa contrapposizione è d’altronde quella da cui si  origina la scrittura che obbliga all’immobilità fisica e permette il movimento del pensiero. La separazione delle due parti non comporta un loro isolamento, è al contrario un ricorso per mettere in atto lo sconfinamento come pratica di scrittura e di lettura. Al sogno del contadino gabbato di Siklist « J’ai fait un de ce rêves, Monsieur Hagg-Bar! » (p.42) corrisponde nel capitolo successivo quello del narratore che sogna due uomini in cammino nel deserto « Je voyais dans mon songe deux hommes arpenter le désert » (p.55) che, dalla descrizione che ne viene fatta, corrispondono ad Hagg-Bar e Siklist. Lo spazio onirico del narratore si fa così riflessione sul loro cammino e aggiunge un ulteriore elemento al senso generale del cammino e del sogno. La divisione è presente anche a livello tematico nella storia dei due personaggi che, verso la fine del romanzo, prendono due strade differenti. Siklist ha l’impressione di aver visto all’orizzonte delle persone e si lancia così alla loro ricerca lasciando Hag-Bar solo sulla sua strada. Allontanandosi da lui Siklist oltrepassa lo spazio della loro unione: « Siklist a déja franchi une sorte de seuil, de premier cercle, d’où l’on pourrait encore moins le ramener par la force du regard que par celle du poignet » (p.105). La divisione va ad intaccare anche spazi ancora più lontani del deserto dei personaggi (che pure si definisce attraverso la distanza, sinonimo di deserto toute cette distance) quello dell’universo in cui la terra e il sole forse hanno perso il loro legame « Détachée, la chaîne qui lie la terre au soleil? » (p.37).

La rete non è il solo oggetto simbolico che stimola lo sconfinamento e l’attraversamento da un punto all’altro. In entrambe le parti tutti i soggetti si trovano confrontati ad oggetti simbolici simili alla rete, come la porta, l’arco e il passaggio. Legandoli insieme e disperdendoli nel testo, l’autore costruisce un discorso sul confine  e una poetica del confine che convivono nell’oscillazione tra i generi che la sua scrittura mette in atto (cfr.§2.2.1). La trama invisibile del romanzo è costruita infatti da un lato intorno alla ricerca di un passaggio e dall’altro dagli scavalcamenti della rete ad opera del sogno e dell’immaginazione. Essa si compie quindi attraverso un linguaggio poetico in cui le immagini di passaggio sono fondanti perché è su di esse che il senso, oggetto della ricerca compiuta nel cammino e nell’immobilità, si realizza. Questa mobilità del senso, da un’affermazione all’altra e da una parte all’altra del romanzo, impedisce  che la circolarità del paradosso si chiuda su se stessa e rilancia nell’infinito del libro, come nell’infinito del deserto, nuove combinazioni che aprono « la possibilité de penser qu’il y a là quelque chose d’impensable » realizzano cioè l’apertura verso la possibilità stessa del pensiero.[129] La porta è infatti per Hagg-Bar e Siklist un termine che definisce lo scopo del loro cammino che, pur nell’apparente girare a vuoto, ha una sua evoluzione nel corso della narrazione. 

« Où allons-nous de ce pas? Nous cherchons la porte d’entrée! Par où l’on passe (…) nous sommes dehors et nous cherchons la porte d’entrée qui sera aussi la porte de sortie. Tel est le sens de notre marche » (p.83).

 

Allo stesso tempo la porta rappresenta anche il rischio che corre il loro cammino di essere bloccato da una porta chiusa che vanificherebbe lo sforzo compiuto fino a quel momento. « Qu’arriverait-il alors si l’une d’elles [les portes] se fermait à votre nez et vous obligeait à revenir sur vos pas? C’est le risque, ça peut se produire » (p.43). Inoltre l’immagine della porta costruisce anche il senso paradossale dello spazio in cui stanno camminando. Il deserto nel quale cercano un’uscita, un passaggio verso la conoscenza della direzione giusta da intraprendere. E’ uno spazio connotato dall’immensità che, senza punti di riferimento risulta essere una chiusura « On ne peut rien savoir. Cette immensité est comme une porte qu’on vient de nous claquer au nez. Ce jour lui-même est comme une autre porte. Y a-t-il une issue quelque part? » (67).


La soglia, nell’aspetto di una porta per Hagg-Bar e per il narratore e di un fiume per Siklist,  è anche l’immagine dell’epilogo della storia di ognuno dei personaggi: la voce misteriosa incontrata da Hagg-Bar, che si definisce come la prova e la promessa: « ce qui se présente sous la forme et l’aspect d’une porte, dans l’innocence d’une porte, et par quoi il faut passer » (p.123); le parole dell’arcangelo ricordate dal narratore: « Tu as dit: Tu es devant la porte. Sans frapper, tu te retrouveras de l’autre côté. Tu ne pourras que passer par moi, je suis la porte» (129); la comunicazione con la tribù che incontra Siklist: « le plus grand de tous se borne à dire, et ses paroles semblent voler par-dessus une rivière placée entre lui et l’homme perdu [Siklist], une rivière à sec, bien entendu » (p.134).

La porta rappresenta infine anche l’extratestualità del romanzo, l’apertura del testo all’insieme dei testi.[130] La porta è infatti un dispositivo tipico dei racconti epici e anche dei testi religiosi.

Anche per questo luogo dell’enunciazione possiamo delineare una densità di significati che vengono attivati  sul confine tra i generi (poesia e romanzo) e il confine tra i testi; al confine come tematica e poetica presente nel romanzo che fa luce sul significato del deserto come luogo dell’attraversamento e dello sconfinamento necessario alla definizione dell’io.


3.2 Il tempo: la sospensione dal presente e il presente sospeso

Attraverso le diverse configurazioni del tempo che si delineano nei due romanzi vedremo come il deserto influenza la rappresentazione della realtà drammatica e violenta  degli attentati che compone il presente dell’Algeria. E viceversa come la rappresentazione del deserto non è specularmente  la rappresentazione di quella realtà ma lo spazio duale di definizione dell’io, che proprio attraverso questa ricerca (nel  passato o nel regno del sogno e dell’immaginario) può dare voce alla realtà.

La realtà come senso del presente, come abbiamo visto  (cfr.§2.1.3), è uno degli oggetti con cui la letteratura magrebina necessariamente si confronta. La realtà a cui approdano con mezzi diversi, sia la scrittura realista di T che quella immaginaria di LDSD, è caratterizzata da una sospensione del presente. Boudjedra la realizza mettendo in campo una frantumazione del presente attraverso il meccanismo della memoria, Dib attraverso la negazione del tempo cronologico « ce temps mort » (p.16) che annulla la differenziazione tra passato e presente. In entrambi i casi lo strumento preferenziale di  orientamento per individuare le dinamiche e la concezione del tempo è la soglia della luce nelle sue molteplici manifestazioni. La sua assenza e la sua presenza, che si esprime infatti attraverso una varietà di sostantivi,  connotano i diversi momenti della giornata: aube, nuit, soir, crépuscule, obscurité, ombre;  jour, aube, aurore matin, journée.

“L’opposizione giorno/notte è determinante nel sentimento dello spazio e del tempo: è una sola e medesima fondamentale intuizione concreta, è l’alternarsi della luce e dell’oscurità, del giorno e della notte, ciò su cui si fonda la primitiva intuizione dello spazio, come la primitiva distinzione del tempo”[131].

 

La rappresentazione del deserto avviene attraverso il tempo: quello della narrazione che ne dà un suo senso in divenire e quello espresso a livello tematico da cui possiamo desumere la visione degli autori rispetto al presente. In T la realtà del presente storico dell’Algeria è espressa attraverso l’intrusione di annunci giornalistici che interrompono la narrazione del presente, ne LDSD è metaforizzata in un discorso astratto sul male che prende la forma di una visione indistinta e lontana.

In T il  senso del presente in crisi viene articolato sulla memoria del protagonista che, ossessionato dai ricordi, non vive pienamente il presente. Per Rachid Boudjedra la memoria è uno dei meccanismi generatori della narrazione che ne viene così influenzata assumendo la forma interrotta e zigzagante dell’intermittenza dei ricordi. « La mienne est une littérature de la mémoire et la mémoire n’est pas organisée et normative ».[132] La  visione del reale  del protagonista nasce da un’impressione del presente che si innesta su un ricordo. In questo modo è il ricordo ad essere soggetto attivo che, riflettendo il presente

nello specchio del passato, ne restituisce un riflesso distanziato.

Questo provoca una sorta di liqueffazione del reale favorita dalla traversata del deserto che per il protagonista coincide con la perdita del  significato del mondo: « ce sentiment quand je roule sur le sable que je perds tous mes sens, toute la signification du monde » (p.15). In particolare è nel deserto notturno che la realtà perde i suoi contorni e stimola nel protagonista un discorso intimista proteso sul ricordo. « La nuit (…) on perd le sens du réel » (p.38). In T la notte riveste un’importanza particolare poiché è parola con cui il romanzo inizia: « La nuit tombe dru. Elle s’infiltre sournoisement dans le car, comme ça, mine de rien » (p.11). Essa traduce l’impossibilità di descrivere un deserto “concreto” ed esterno al protagonista, che si fa così metafora buia del suo passato e mezzo per dar voce alla sua sofferenza che affonda proprio in quel passato e si riversa sul presente. La notte infatti  più che a una condizione fisica fa pensare ad una condizione esistenziale, « le néant nocturne » (p.16) è come un buco nero che ha risucchiato i contorni precisi dello spazio insieme a quelli del passato del narratore che, senza spiegare se stesso, non può descrivere nemmeno il deserto. Infatti con l’avanzare del racconto della sua storia personale, il protagonista inizia a definire sempre più chiaramente,  alla luce dei giorni passati, la molteplicità delle forme del deserto. All’inizio del racconto esso ha un significato oscuro che necessita di un codice per aprirne l’accesso, è un’entità indecifrabile, molteplice e indescrivibile che l’uso dei plurali e l’immagine metaforica del geroglifico mettono in evidenza. « Dehors, à gauche, à droite et de face: le désert. Hiéroglyphes indescriptibles à l’intérieur d’un code fabuleux et poignant. (...) Le car avance parmi l’inextricable enchevêtrement de ce désert » (p.16).

La notte si impone col suo potere falsificatorio che mette in crisi la realtà moltiplicandola in frammenti mirifici. « La nuit est froide. Elle s’installe carrément maintenant et finit par tout fausser » (p.18). Anche la scomparsa del sole viene vissuta come l’annullamento del significato, quasi a sottolineare che l’unica realtà possibile è quella diurna che incarna il caos, la sofferenza e il desiderio di morte, il gusto del non-sense della sabbia.[133] « Mais c’est avec le coucher du soleil que la réalité bascule. Le monde n’a plus de sens. Ou plutôt, il le perd. »(p.94). La visione del mondo assume la stessa dinamica del deserto, fatta di perdite progressive come quella della luce.

La sensazione di solitudine nell’oscurità si amplifica e fa apparire il deserto come il luogo metaforico dell’angoscia, dell’instabilità della realtà e dell’incomprensibilità: « Toujours ce désert qui se déroule. Même la nuit il est le lieu central de l’angoisse » (p.16). Di notte il deserto si smaterializza in uno spazio astratto in cui la percezione visiva non può più essere d’aiuto. « Maintenant il n’y a plus de désert. Reste le froid et subsiste un climat délétère


et inconsistant. Impossible à déceler clairement » (p.12).

La notte « matière dure et aveugle » è anche la metafora del suo passato, che come lei « s’enfiltre sournoisement » ed è al tempo stesso ciò che lo stimola a raccontarlo provocando una sensazione liberatoria.

« En fait il n’y a que dans le désert que j’arrive à évacuer le trop-plein de sentiments étranges, de désirs d’automutilation et de sensations pénibles. Le désert est âpre, impitoyable et angoissant avec ses sables, ses dunes et ses plateaux rocheux » (p.113).

 

Attraversare il deserto è doloroso quanto ripercorrere il passato, in cui  c’è un senso liberatorio, che è lo stesso della scrittura, di evacuazione della negatività ma anche la fatica  di confrontarsi all’impietosità, all’angoscia e all’asprezza. Il narratore deve assumersi il rischio di fronte a tale compito: il rischio di perdere se stesso fra le piste del passato, il rischio di andare a tutta velocità senza punti di riferimento, il rischio di morire alla vista di tutta la meschinità umana.

Tutto il Sahara, notturno e diurno,  si fa metafora della memoria e del tempo attraverso la somiglianza tra la forma dei ricordi e la forma del paesaggio.  Il carattere cangiante del deserto « sa métamorphose continuelle » (p.115) e la forma variabile che assumono i ricordi sono legati da una corrispondenza testuale. Il deserto è costituito di « fragments qui découpaient l’espace » (p.115) proprio come i ricordi che frammentano lo spazio della narrazione e appaiono distribuiti nel testo come strati di sabbia o di roccia,  oppure mobili e  mastodondici come i blocchi di pietra che si spostano col vento. Uno di questi è ad esempio il ricordo della morte del fratello del protagonista che si muove nel racconto ricomparendo diverse volte a sottolineare la sofferenza del protagonista che per lei ha scelto di stare nel deserto e di « emprunte(r) des plateaux inaccessibles, parsemés de blocs rocheux capables de se mouvoir, en une semaine, sur des centaines de mètres sous l’effet du vent et de l’érosion qui créent un relief tourmenté et lunaire aux formes étranges, toujours mobiles, toujours en déplacements » (p.113). Come il mutamento delle forme nel deserto, « ces paysages et ces espaces que le Sahara multiplie à l’infini » (p.110) è dovuto all’azione della luce che imprime colori diversi  ed ha in sé una forza disgregante « les résidus de clarté restante s’étaient éparpillés comme grappillés, distribués à l’intérieur des arbres » (p.80)[134], così i ricordi sono soggetti allo stesso cambiamento di interpretazione a seconda del momento della narrazione in cui compaiono che li illumina da una una diversa angolatura.

La narrazione va ad assumere così una forma disordinata e discontinua generata dalla concatenazione e dalle associazioni dei ricordi. Il racconto principale, continuamente interrotto, coincide con la forma del deserto: « dans le désert l’espace n’est plus qu’un conglomérat de vibrations bourrés de couleurs, de formes et de sens zigzaguant à travers ses méandres et ses tournants » (p.50). Le digressioni nel passato, come afferma Ahmed Mahfoudh,  hanno la forma di un movimento tourbillonaire[135] che si interseca su quello rettilineo del percorso del viaggio. L’attraversamento del deserto diviene così un attraversamento  spazio-temporale in cui il tempo si fa spazio -attraverso la coincidenza della forma dei ricordi con quella del deserto « fragments qui ne cessent jamais de varier » e lo spazio  si fa portavoce dello scorrimento del tempo: « ce désert qui se déroule » (p.16).

La narrazione assoggettata all’ordine frammentario della memoria, crea così un decentramento della temporalità in cui i diversi livelli temporali sono difficilmente distinguibili gli uni dagli altri. Spesso infatti l’autore usa lo stesso tempo verbale per narrare sia un episodio del passato che ciò che sta accadendo nel presente del viaggio. Questo avviene perché il tempo fuso allo spazio è quello interiore del narratore e del suo passato. Il discorso sul deserto viene quindi descritto con un presente atemporale poiché esso è il risultato di una stratificazione nel tempo di immagini di deserto « toutes ces visions désertiques s’entassent depuis une dizaine d’années les unes au-dessus des autres » (p.114) che fanno del deserto oggettivo, un deserto soggettivo « une sorte de désert qui n’apartennait qu’à moi-même, fait de fragments qui découpaient l’espace selon des formes arrondies et ondoyantes » (p.114). Questo deserto che è entrato


dentro al protagonista e lo ha modificato attraverso le sue forze dinamiche, fa emergere il loro legame profondo e fa sì che il deserto del narratore sia  mon désert  opposto ad un concetto generico di deserto. La sabbia che si infiltra ovunque, il freddo che frantuma le ossa, il vento che stropiccia l’aspetto esteriore e interiore del protagonista, mettono in scena il lavorio continuo del deserto sul protagonista che, per misurarne gli effetti, deve rapportarsi al passato, fare perno su se stesso e sulla propria storia. Il presente allora ha la stessa forma del Sahara « grabuge intolérable du monde, bouleversement incroyable de la géographie et de la géologie » (p.56), lo stesso gusto non-sense  della sabbia, del disastro della sua esistenza e di quella del mondo ricongiunti nell’immagine del sangue del ricordo traumatico della madre e degli attentati.

* * *

Ne LDSD ciò che definiamo come presente sospeso è il risultato di una combinazione testuale e tematica. Il deserto forma un’entità spazio-temporale sospesa in cui lo scorrere del tempo è risucchiato nell’eternità di un tempo mitico ed onirico e il deserto come luogo è dissolto in un concetto di immensità che lo sottrae dalla sua significazione geografica. In questa dimensione  di infinito spazio-temporale il  tempo è « un temps inscrit à nul horloge » (p.109) in cui il passato « n’en finit pas de passer » (p.112) e il presente è « inconcevable, dans sa blancheur, son immutabilité » (p.121). Quest’infinità spazio-temporale, estranea all’uomo, incomprensibile e indecifrabile è l’oggetto della ricerca dei personaggi e della scrittura che la parola poetica esprime attraverso la forma interrogativa. La domanda gira su se stessa, si ripete eternamente come la fiamma che brucia e ridisegna lo stesso cerchio d’infinito che dà forma al deserto. Così il dire interrogativo e il deserto in cui il tempo è sia ciclico che in divenire vanno a coincidere nella stessa forma per farsi metafora della scrittura che si compone di atti contrari e complementari come la cancellazione e la reiscrizione « On efface tout et on recommence (p.80) retourne à ta place et recommence » (p.60).

La successione nel tempo degli avvenimenti viene continuamente messa in crisi : « Le naufrage a commencé dès ce moment, avant nous. » (p.78). L’assenza di un tempo che scorre è sostituita dall’immagine del camminno che cammina che sposta la narrazione dall’asse temporale a quello spaziale creando effetti di smarrimento per il lettore. I personaggi nel momento in cui compaiono nel racconto vengono iscritti in un tempo eterno che gli permette di continuare all’infinito a muoversi nello spazio gesticolando, oscillando tra la pausa, la ripresa e la cessazione definitiva del loro movimento.

« Un temps ; non, ils ont l’éternité devant eux. L’éternité : ce ne sont pas eux qui ont l’air de l’ignorer. (p.16) Continuant à se trouver de tout temps là où ils étaient à chaque seconde et, à présent, là où ils sont, simplement là où ils sont, et de tout ce temps, sans s’inquiéter de quoi que ce soit » (p.17). La vita è un cammino, una ricerca in atto che si compie nello spazio  dove l’importante è che essa si compia e come fare a verificarlo. « Nous continuerons de suivre notre route à nous. Celle qui va qui mène au sens. Cette route si par hasard elle nous perdait, si elle le faisait, c’est pur que nous nous retrouvions. Et le reste? Et le temps qu’il faut y consacrer? Le reste suivra. Le temps suivra. » (p.106). Nell’assenza dell’alternarsi di giorno e notte, i giorni si denudano nella forma di pure parole con cui i personaggi giocano e vanno a comporre uno dei soggetti più ricorrenti nei loro dialoghi sconnessi. Hagg-Bar e Siklist si chiedono a vicenda che giorno è e da quanti giorni si trovano lì, in uno spazio che « s’étant fait invisible reste comme s’il n’existait pas » (p.20). E la risposta varia ogni volta : « 4, 40,12,18,23, jeudi, vendredi, mardi, samedi » esprimono cifre e nomi vuoti di senso quando nel succedersi dei giorni non si capisce cosa succede, ovvero quando nel tempo che passa non si riescono a cogliere gli avvenimenti che in quel tempo si verificano perché nel momento in cui si cerca di afferrarne la verità e la sostanza, essa sfugge di mano.

« Levant les yeux, je trouve la vie toujours là. Que s’est-il passé entre-temps ? Uniquement des heures, des jours. Mais toute proche, toute offerte, cette vie se fait fumée dès la seconde où vous êtes tenté d’en saisir quelque chose, d’en prendre une bolée au creux des mains. Et si un événement s’est produit, nous n’en avons pas eu connaissance.»(p.25)

 

Il presente è un tempo caratterizzato dall’attesa di questa possibilità cognitiva sugli avvenimenti, con la coscienza della sua impossibilità.

« Il se produira quelque chose » (p.13)

« Un événement va se produire. (…) Rien ne s’est passé. Et on peut tenir pour assuré que rien ne se passera » (p.66).

 

Gli oggetti stessi dell’attesa sono incerti e mutevoli, i mezzi per verificarli ingannevoli. La promessa, ad esempio, è uno dei motivi centrali dell’attesa. Essa viene messa costantemente in dubbio dalla parola interrogativa e visionaria che traduce la sua sostanza illusoria e sfuggevole.

« Mais à travers les mailles du grillage apparaît je ne sais quoi. La promesse ; se réalise-t-elle censément sous nos yeux ? (…) Et nous voyons. Deux hommes en blanche culotte se renvoyent une balle au moyen d’une grande cuiller plate . C’est tout. La scène dure depuis longtemps, sans doute après avoir commencé sans que nous nous en soyons rendus compte. Quelques fois la balle se perd, manquée. Alors l’un des deux hommes en extirpe une autre de sa poche et ça repart, ça reprend, sans changements. » (p.26)

 

Questa visione di un’azione che si protrae infinitamente nel tempo, si trasforma in uno spettacolo mostruoso.[136] « Nous n’assistons à ce ballet dont nous ne voyons, sentons que l’horreur qu’il diffuse pour nous submerger à notre tour d’horreur » (p.26) Il tempo senza argini è dunque spaventoso ma può essere al tempo stesso idilliaco come nel tempo mitico dell’Eden in cui l’uomo ha conosciuto la pienezza dell’unione. « L’éphèbe sans âge la prend [Hawa] et la refond en lui, qui redevient soi-même l’hermaphrodite de la fin comme il l’a été celui du commencement » (p.40).

L’oggetto dell’attesa si configura quindi nella riconciliazione, possibile solo nel riconoscimento della molteplicità, scoperta attraverso un percorso che  mostra come le cose siano quel che sono e altro allo stesso tempo : le cose create in origine attraverso la parola non restano immutate pur nella loro immutabilità che

impedisce di sapere se torneranno. « Il est là le danger. Vous dites, et la chose dite se trouve l’être par l’autre, elle est ailleurs et ici » (p.80). E’ un paradosso che rischia di non finire mai. L’unica memoria del narratore può essere quella mitica perché quella storica è troppo dolorosa. Ma l’eterno ritorno del mito non è certo « Je l’espère et désespère sans cesse de voir arriver ce moment. » (p.93)

Questo tempo ciclico della continua creazione, del movimento infinito che nella sua infinitezza si chiude su se stesso, viene espresso attraverso le definizioni del deserto e della luce che lo contraddistingue. La luce enfatizza l’idea di infinito attraverso le immagini metaforiche  di una circolarità che si ricostituisce perpetuamente: « ce brasier qui s’entretient lui-même » (p.95), « cette lumière qui se brûle elle-même » (p.32), « cette clarté qui a fait le vide autour d’elle » (p.125), « L’immense, intolérable clarté du jour, reconstituée, se déploie de nouveau » (p.126); oppure nell’apertura di un paradosso chiuso su se stesso « le dèchâinement immobile de la lumière: tout ce qui va se dissoudre dans un lointain foyer. »(p.79); o ancora in un’aggettivazione per assoluti: « L’immense voûte céleste rayonne du même éclat inaltérable » (p.90), « l’oeil fixe du jour » (p.125).

La via di compresione di questo presente inconcevable sta ancora e di nuovo nell’attraversamento di una soglia che permette un’uscita dal tempo circolare « je ne saurais être vrai à mon tour que sorti d’elle [la lumière] » (p.73) « Sur sa figure, se répand une expression de bonheur comme s’il écoutait le temps s’éloigner, aller au-delà. »  (p.91)

 Un’oggettivazione di questi passaggi sono le soste che si configurano come sottrazioni allo scorrere del tempo. Haltes e pauses sono ciò che caratterizza il cammino di Hagg-Bar e Siklist - ciò che sembra determinarne il fallimento e al tempo stesso la riuscita. « Des haltes et des pauses, si longues parfois qu’à les regarder on s’imagine : Maintenant c’est l’arrêt complet, la panne.  Et eux, à ce moment, ils s’ébranlent, semblent plus que décider à ne pas rester là. » (p.16).

Il senso che si iscrive in tali soste è quello che permette di pensare anche all’esistenza di un futuro, racchiuso potenzialmente nell’idea stessa di promessa e di ricerca. « Vous attendez devant l’aire vide sur laquelle l’air vibre, vous demandant : quelle vie reprendra, quel feu brûlera à nouveau dans ce foyer? » (p.41). Il presente caricato di una promessa di futuro - per non  annullarsi completamente nell’incompresibilità e nel mistero- viene espresso come futuro anteriore  « ce moment aura été le plus important de ta vie » (p.79). Il passato e la memoria sono oggetti occultati, intoccabili, inghiottiti. Per essere detti vanno capovolti : « Pressentiments qui m’assaillez dont je ne puis dire si vous êtes remembrances d’hier, à moins qu’à l’envers, vous, mes souvenirs ne soyez de prémonitions, j’existe encore. » (p.72)

Questo procedere non lineare della scrittura, come del cammino dei personaggi e dello svelamento del senso costringe il testo ad un esercizio acrobatico sul filo dello sgretolamento continuo ma mostra che la ricerca impossibile è resa possibile proprio da questo procedere anomalo, distaccato da una concatenazione temporale, fatto di trébuchements, di pauses, di défauts de memoire in cui il ricordo è possibile solo nell’oblio. Gli atlal, oggetto della ricerca perseguita da Hagg-Bar, sono infatti pause « campements du vouloir dire, haltes du sens » (p.86) come l’incontro con gli uomini, cercati da Siklist, che si realizza in un canto collettivo segnato da un controtempo e da una pausa al posto di un accento :

« Le chef, s’il l’est le moins du monde, s’avance alors vers lui et, tapant toujours des mains, feint de trébucher, mais c’est pour marquer en fait le contre-temps, la pulsion d’une frénésie domptée. Il lui a ainsi montré, au moyen d’une syncope, qu’ils chantaient. Il lui a fait voir l’éclat de notes inaudibles » (p.136).


3.3 Lo spazio : valori funzionali e simbolici

Per entrare nel significato delle immagini di deserto, dobbiamo pensare allo spazio desertico come sistema (cfr.§1.1.1) in cui la forma dell’immagine, come quella del paesaggio, è il risultato di un’interazione dinamica tra gli elementi. Le più frequenti prendono vita da una contrapposizione, un entre-deux, che apre la possibilità  a sensi diversi in cui la costante è il legame con l’io narrante. Le altre si inquadrano, nell’assenza di un senso unico,  originario, in una condizione di divenire continuo, suscettibile alla perdita sia del deserto che dell’io[137].

Una delle configurazioni dello spazio desertico ad esempio, riguarda il suo attraversamento, dove la prospettiva di definizione è orientata  rispetto al movimento. Abbiamo già visto come il movimento rappresenta  un mezzo di scansione del tempo,  segnandone uno scorrimento o un suo capovolgimento. E’ altrettanto rivelatorio vedere quali siano i significati  a livello simbolico e narrativo  degli elementi che suddividono lo spazio determinando una sua “attraversabilità”. Questi infatti sono strettamente legati alla dinamica di definizione dell’io che si compie in tale attraversamento.

Il protagonista di T è una guida turistica, la cui professionalità è solitamente basata proprio sulla conoscenza delle vie, dei percorsi, degli itinerari. La nostra guida però ha una propensione per le piste non comuni, « Piste cabossée, étroite, dure comme de la tôle ondulée » (p.11) « pistes impraticables et interdites » (p39), « pistes interdites et non balisées pour essayer de me perdre » (p.113) dove l’impraticabilità come criterio di scelta manifesta da un lato la spinta a misurarsi con lo spazio e dall’altro una propensione alla perdita che ne deriva. L’attraversamento dello spazio si configura allora come viaggio di conoscenza sottoposto alla perdita, rivelatorio dell’identità e della rappresentazione dello spazio. Parallelamente, una caratterizzazione di deserto che è spesso presente nel romanzo è quella dell’indefinitezza e mutabilità dei contorni e dei tracciati,  « j’évitais les grands axes et je préférais les pistes parfois dangereuses parce que le tracé peut se déplacer d’une minute à l’autre, les dunes disparaître d’un coup d’oeil. »  (p.60), un deserto che scompare nei suoi tratti visibili, « Maintenant il n’y a plus de désert. Reste le froid et subsiste un climat délétère et inconsistant » (p.12), « Le désert s’évanuit alors. Il ne reste plus trace de rien » (p.62) causando la perdita di punti di riferimento sia all’esterno che nell’interiorità del protagonista.

La perdita o scomparsa del deserto mette in atto simbolicamente anche un denudamento da tutti i significati contenuti nel « code fabuleux et poignant » in cui è inscritta la sua prima defininizione nel romanzo[138] e allo stesso tempo un allontanamento da una codificazione preesistente a favore di una definizione personale, basata sul vissuto del protagonista e sulla sua interiorità. Al denudamento del deserto corrisponde infatti un denudamento dell’io che discende nelle profondità estreme, « jusqu’au bout », per trovare una definizione di se stesso attraverso il deserto e del deserto che si definisce attraverso se stesso. Questa perdita del deserto è dunque necessaria ad un processo di interiorizzazione, che si riapre poi verso l’esterno per fare del deserto la metafora del mondo. Al deserto che scompare all’esterno corrisponde infatti un deserto che entra, letteralmente, nel protagonista attraverso il freddo, l’aria e la sabbia « il ne reste plus trace de rien sauf cette sécheresse de l’air dure et cassante comme du mica et,  dans la bouche, le goût du sable qui crisse sous les dents » (p.62) « Tout ce sable infiltré dans les vêtements, les narines, la gorge et la poitrine » (p.12).  Lo stesso gusto di sabbia è metaforicamente l’assentarsi del senso dal mondo, (p.83) del disastro personale e collettivo, « Goût dans ma bouche du sable, du non-sense, d’une sorte de métaphysique larmoyante, du désastre » (p.15) che chiude il cerchio del processo:


Un altro processo di definizione del deserto avviene attraverso le giustapposizioni di contrari e di contrapposizioni al quale corrisponde nel protagonista una spinta a misurarsi con esso. L’immagine personale di deserto viene messa in rapporto ad una collettiva generalizzata per farne risaltare un valore, espresso però con aggettivi negativi. I caratteri negativi del deserto « dur, méchant, insupportable » contrapposti all’immagine « toute faite » dei turisti che lo trovano « idyllique et envoûtant » (p.38), esaltano un’idea di rapporto vero e concreto col deserto, basato su una lotta protratta nel tempo che fortifica e sulla sofferenza personale come garanzia di veridicità.

Gli stessi caratteri negativi del deserto « méchant, dur, invivable » cambiano di segno per esprimere una preferenza rispetto alla città « atrophiée, surpeuplée et aggressive » (p.50) e segnare una contrapposizione tra la passività della città e la spinta attiva che deriva dalla durezza del deserto. Inoltre, viene messo in atto un capovolgimento dei rapporti di civiltà-barbarie: la barbarie non abita più i luoghi solitari ma invade la città in cui dovrebbe regnare la civiltà[139].

Il meccanismo duale serve a definire il deserto in sé, anche quando non viene contrapposto ad altri deserti.

« L’horizon à la fois à portée des doigts et en même temps très très loin (…) se rapprochait et s’éloignait à la fois » (p.81);

« le soleil couchant  semble un lambeau ovale rouge et livide, à la fois, flamboyant et terne, brouillé et distendu , (…) les  dunes de l’Erg, en arrière-plan, à la fois camoufflées et criardes (p.62).

 

Esso forma cioè l’idea di un  deserto come sistema che si compone di sotto-spazi contrastanti, come ad esempio la notte nell’oasi « profonde, voluptueuse, charnelle » (p.80) e la notte « dure et aveugle » (p.17) lungo la pista in pieno deserto; lo spazio del deserto aperto « conglomerat de vibrations, de formes et de sens zigzaguant à travers ses méandres et ses tournants » e lo spazio dell’aosi che invece forma « un réseau compact et serré des lignes entrecroisées » (p.50); o ancora la vegetazione lusssureggiante « laurier géants, palmiers, figuiers, vignes » (p.113) che nasce all’improvviso e cresce tra gli interstizi della roccia dopo centinaia di chilometri di aridità.

Lo spazio desertico nella sua totalità racchiude insomma una dualità fondamentale « tout le désert dans son aridité et sa fécondité; son  âpreté et sa douceur » (p.39) corrispondente a una duplice pulsione positiva (vita, eros) e negativa (morte, tanatos) che ritroviamo nel protagonista. A livello più superficiale essa corrisponde al suo atteggiamento e al suo rapporto nei confronti del deserto ch’egli vive  « dans la peur et la terreur ma anche dans la serenité et l’accalmie » (p.114), un deserto che « me fait si peur et me donne tant de joie et d’euphorie en même temps » (p.19). A livello più profondo questo meccanismo incide sulla struttura del significato finale del deserto come metafora del mondo e mezzo di acquisizione del potenziale di differenza con se stessi che avviene attraverso l’esperienza del deserto.

Il deserto viene definito come luogo della sofferenza e metafora della morte, ma, al tempo stesso, proprio il deserto nel suo continuo movimento e disordine è l’oggetto di un confronto dinamico che fortifica il protagonista e gli permette di ricostituire il prorio io attraverso lo spazio. Il deserto è l’immagine del mondo e lo strumento per conoscerlo attraverso l’esperienza della sofferenza « Personne ne connait la souffrance s’il n’a pas regardé du haut de l’Assekrem ce chamboulement cosmique qu’est le Hoggar » (p.55). La sofferenza è lo strumento di conoscenza della condizione esistenziale nel mondo desertificato dal caos e dallo scompiglio : « Le Sahara c’est ce grabuge intolérable du monde, ce bouleversement incroyable de la géographie et de la géologie » (p.56), « le lieu où se révèle toute la mesquinerie humaine » (p.114), è uno strumento di acquisizione della realtà irrinuciabile perché permette di definirsi rispetto al mondo :

« C’est dans cette région que j’ai le plus souffert. C’est pour cela que j’y viens. Pour la souffrance. Seulement pour la souffrance. » (p.38)

« Je faisais exprès d’entretenir en moi cette souffrance saharienne. Je parcourais ces espaces arides, sciemment, en ressassant mes anomalies, mes échecs et mon incapacité à vivre le monde tel qu’il est. » (p.115)

 

Il protagonista vive in una posizione di instabilità tra il desiderio di suicidio e il suo superamento attraverso l’attrazione che ha per Sarah e quella per il deserto (eros) che egli vive come esperienza del bordo, della vertigine che precede la caduta..

« Toujours cinq capsules de cyanure à portée de la main. Prêt à m’en aller. Si je n’aimais pas tant la vodka, ce désert fabuleux et les 27 façons de résoudre une équation du troisième degré. » (p.37).

 

L’attrazione per la morte compare spesso nel romanzo « Cette tentation de la mort qui m’a fasciné depuis toujours » (p.74) e compone un nodo tematico che unisce il passato e il presente del narratore. Per tutta la vita ha sfidato la morte prima nei grandi spazi aerei, poi negli spazi impervi del deserto percorsi a velocità folli a causa della morte del fratello maggiore che torna ad ossessionarlo, durante il racconto, al ritmo flagellante degli annunci delle vittime di attentati terroristici del presente.

Il senso di morte che il protagonista sente attorno a sé diviene una pulsione che egli proietta sui diversi elementi di paesaggio desertico che si fanno metafora del presente doloroso. « Cette désintégration lunaire où la rocaille, le sable, les dunes, les crevasses et les pics majestueux donnent envie de mourir tout de suite » (p.55). Anche quando la morte compare in contrapposizione all’esperienza superficiale del turismo, dietro alla critica sociale, possiamo leggere nell’interscambiabilità di morte e Tassili la stessa proiezione:

 

« Je n’ai jamais parlé de la mort, de la tentation de la folie et du suicide, dans le désert, à mes clients. Pas même à Sarah. Elle ne comprendrait pas. (…) Je n’ai jamais, vraiment parlé du Tassili, à me clients. Ils sont souvent trop pressés d’aller vers les gravures rupestres dont il ne subsiste que très peu. Pillées pour la plus part par les rapaces d’ethnologues, les militaires conquérants et les préfets coloniaux » (p.56).

 

L’attrazione per la morte equivale così all’attrazione per il deserto, tanto che per il protagonista il Sahara è il suo « mode de suicide » (p.50), preferibile a quello della città dove regna il terrore degli attentati[140]. Ma la sofferenza che provoca in lui la visione di quel deserto che fa venir voglia di morire diviene un valore positivo. E’ come se in un tale paesaggio i desideri di autodistruzione del protagonista amplificandosi migliaia di volte svanissero. I crepacci, i tagli vertiginosi delle falesie, le piattaforme rocciose che si  interrompono bruscamente, si sostituiscono alle ferite ch’egli vorrebbe infliggere sul proprio corpo. Questo transfert che avviene attraverso l’esperienza sensoriale ed emotiva, lo alleggerisce dai pensieri negativi e gli infonde volta per volta energia nuova per continuare a vivere. « Il n’y a que le désert que j’arrive à évaquer le trop-plein de sentiments étranges, de désirs d’automutilations et de sensations pénibles » (p.113).

Il deserto assume un valore attraverso l’umano vissuto che  deposita le visioni, le percezioni e le esperienze nel tempo che scorre assieme alla vita. Tale esperienza nella sua ripetizione nel tempo trova maggior forza e forma una stratificazione potente contro la morte. « Toutes ces visions désertiques s’entassent depuis une dizaine d’années, les unes audessus des autres et me permettent de survivre » (p.114). Ripercorrendo quegli spazi, egli ripercorre anche il suo passato e  ricompone  un’immagine di se stesso. In passato il protagonista ha percorso anche a piedi la montagna. Questo è stato il modo per fronteggiare i suoi fallimenti e le sue incapacità. Se, come dice Bachelard, ogni lotta necessita di un oggetto e di uno scenario[141], la roccia nera dell’Hoggar è stato per il protagonista il modo per vincere la battaglia contro la sofferenza. Dopo le scalate durate l’intero giorno, egli assapora la smaterializzazione delle forme del dolore al tramonto e la ricomposizione di un mondo nuovo all’alba.

« C’est dans le désert que la mort de mon frère prenait des dimensions prodigieuses que le Hoggar dans sa métamorphose continuelle accentuait jusqu’à l’exultation. Je faisais exprès d’entretenir en moi cette souffrance saharienne. Je parcourais ces espaces arides, sciemment, en ressassant mes anomalies, mes échecs, et mon incapacité à vivre le monde tel qu’il est. J’escaladais à pieds les monstrueux rochers noircis et calcinés du Hoggar, dans l’attente des couchers de soleil où les formes se dépouillent d’une façon étrange. (...) Que de nuits et que d’aubes j’ai passé en haut de l’Assekrem. » (p.115)

 

Così il deserto diviene anche « joie et euphorie » per lo stupore dell’apparizione inattesa di oasi completamente isolate dal mondo (p.113), per l’acqua che sgorga all’improvviso, va ad incarnare un potere taumaturgico attraverso il calore del sole che impedisce al suo dolore di coagularsi nella testa (117) e la possibilità di purificazione nei torrenti, in cui « dans un vertige d’eau pure » (p.117) egli si libera dei pensieri negativi. 

* * *

Se in T lo spazio desertico è attraversabile a priori, seguendo cioè le piste di un realistico percorso turistico, ne LDSD ci troviamo in un deserto sospeso da una connotazione geografica  « ce lieu qui a l’air de n’être d’aucun lieu » (p.13), in cui i criteri di attraversamento per forza di cose sono diversi, almeno in apparenza. Il romanzo, costruito attorno al desiderio di un passaggio verso il senso e verso la realizzazione della promessa, configura infatti un’altra prospettiva di attraversamento. In questa situazione il deserto è ciò che sta al di là della rete per il narratore e al di qua della porta per Hagg-Bar e Siklist, è cioè lo spazio esterno, l’altro da sé. I passaggi però sembrano imposssibili per le caratteristiche di impenetrabilità del deserto che è « vide inviolable, insondable rayonnement blanc » (p.15), e che ripetendosi identico a se stesso « distance qui se révèle identique à elle-même » (p.15), perpetua l’idea di un’uniformità incomprensibile.

L’alterità è il luogo del nulla, dell’assenza di oggetti o azioni: « rien qui encombre rien qui bouge » (p.79), « rien ne se passe. Rien ne se voit » (p.12); « autour de nous, rien…Personne » (p.29), il regno del vuoto che può prendere la forma della distesa « étendue nette » (p.79) e negarla in una « étale uniformité ». E’ uno spazio astratto, « abstrait à force » (p.29), senza argini « l’endroit n’est pas fermé » (p.33), « étendue vacante, tout ouverte » (p.41), « sans commencement ni fin » (p.72), in cui il carattere dell’infinitezza sembra autogenerarsi da un’eterna cancellazione e ricreazione delle forme: « le désert n’engendre que du vent et le vent, lui, fait le désert » (p.36).

E’ uno spazio sia centripeto che centrifugo che attira, inghiotte e seppellisce gli elementi e i punti di riferimento per poi restituirli ancora più indefiniti :

« Les sables ont tout reçu…et le désert refermé videra son silence, son vent sur eux et plus loin » (p.12).

« Le désert s’est reconstitué, s’est rendu à lui même, simulant à nouveau cet espace où le regard ne sait où se poser. Et se rejoignant comme il vient de le faire, il a englouti ce qui un moment auparavant prétendait s’y instaurer, s’y conserver » (p.40).

« Comme il n’a cessé de le faire, il culmine , mais s’étend aussi dans toutes les directions. Comme il semble aspirer sans un cillement ces mêmes directions , les dissoudre et ne chercher qu’à les repandre de nouveau en clarté vaine , en blancheur décharnée » (p.17).

 

Il senso di impenetrabilità che lo caratterizza è rafforzato anche dal tipo di scrittura che fa delle parole una sorta di materia respingente attraverso definizioni costruite su ripetizioni: « Désert du désert. Poussière de la poussière. Silence du silence » (p.105), tautologie « Le désert offre la particularité que, dans quelque direction où vous alliz, et aussi loin que vous alliez, vous restez sur place, restez au milieu du désert » (p.59), o paradossi « le vide nous cerne (93) l’espace abstrait,  neige dont la lumière ne s’étend que pour en cacher la face noire » (p.29) che mettono in evidenza come l’unica realtà da considerare come certa sia proprio il suo assentarsi: « ce vide, seule réalité certaine » (p.66). L’alterità del deserto si esprime anche attraverso un modo denudato di dire il deserto, costruito cioè attraverso una metaforizzazione scarna fondata su un unico sostantivo che si sostituisce al termine désert, come ad esempio « vide », « distance », « immensité », « feu ». Viene così messo in atto una cancellazione della differenziazione di paesaggi che va a formare un deserto altro, « cet autre infini » (p.37).  E’ in questo spazio, in cui si sta sempre nello stesso posto, che Hag-Bar e Siklist muovono il loro cammino paradossale. Per loro il deserto è soprattutto il luogo dell’esserci, della presenza radicalizzata nell’uso ripetuto di avverbi di luogo che fanno del deserto semplicemente un « ici »,  o un « là » altro e separato dallo spazio interiore di esistenza.

“Où est le poids majeur de l’être-là, dans l’être ou dans le là? Dans le là -qu’il vaudrait mieux appeler un ici- faut-il de prime abord chercher mon être? Ou bien, dans mon être, vais-je trouver d’abord la certitude de ma fixation dans un là? (...) Dans la tonalité de la langue française, le là est si énergique que désigner l’être par un être-là, c’est dresser un index vigoureux qui mettrait aisément l’être intime dans un lieu extériorisé.”[142]

 

Il deserto denudato in un ici mette pienamente in scena questa dialettica tra l’essere e lo spazio, ma operando una sovrapposizione dei piani, Dib tende ad oscurare sia la definizione dell’io che del luogo.  L’essere (narratore e personaggi) rappresentato nel romanzo è un essere senza confini precisi né argini che lo tengano unito, è : « ombre » (p.13), « rêve du désert » (p.69), « nous,des riens du tout » (p.71), « duvet effeuillé, édredon éclaté » (p.125). La stessa indefinitezza dell’io è presente anche a livello narrativo attraverso la cancellazione e la confusione dei riferimenti enunciativi, come fa notare Martine Mathieu: “Dans LDSD l’auteur se livre au brouillage fréquent des repères énonciatifs. La source d’énonciation du texte n’en apparaît pas pour autant multiple en général, mais plutôt éclatée, et surtout pulverisée”[143]. Questo io inconsistente in cerca di una propria definizione si sovrappone ad uno spazio desertico che è esattamente la negazione della localizzazione, ovvero della « certitude de fixation » di cui parla Bachelard. Esso è infatti un « lieu où il n’y a lieu que de soulever de questions », uno spazio che allarga all’infinito la domanda, soprattutto quella circa l’origine iscritta in un luogo definito.

« D’où viens-tu? L’espace lui-même sans commencement ni fin paraît reprendre paraît répandre la question. Torride le ciel , torride la terre , torride l’air entre eux. Incertain l’horizon et sèche l’odeur de pierre d’un monde qui se consume à son propre feu.(…) De tout cet espace. Une réponse qui ne fait pas justice de la question ni l’écarte(…) Et la question reste posée. (p.72).

 

Il deserto si fa allora metafora dello spazio indistinto dell’esiliato, dell’apolide, dell’ « âme errante, à la recherche de sa mémoire » (72), metafora di un mondo « lessivé à blanc » (p.73), che ha dissolto le pietre che parlano dei luoghi calcinandosi in un biancore uniforme: il mondo desertificato.

Parallelamente però questo deserto astratto e sospeso ha una positività, riconoscibile ad esempio nel valore estetico della nudità: « Un espace nu comme la main, y a-t-il rien de plus beau? » (p.33) ma soprattutto nella sua apertura ad ogni evento ed a ogni immaginazione « le désert (…) où tout peut arriver » (p.41). Anche quando sembra che tutte le possibilità siano già state aperte e richiuse, il deserto « tout ouvert » può allargarsi ancora ed offrirne delle altre: all’immagine paradossale dell’immensità come una porta che si chiude (p.67) corrisponde infatti l’incontro con la porta che si apre sul mistero dell’identità, come succede ad  Hagg-Bar che, dopo la rivelazione del proprio nome, diviene una sfinge: « Il ne se doute pas qu’il est le sphinx dont les yeux aveugles voient en avant et en arrière de soi » (p.114). L’astrattezza dello spazio in cui è assente ogni oggetto concreto obbliga ad immaginarli e a definire il proprio io attraverso queste immaginazioni. Così Hagg-Bar e Siklist possono immaginare gli atlal e fare del proprio cammino un cammino di deciframento del senso[144] lungo il quale perdersi e ritrovarsi; il vuoto può essere ricompattato in un respiro, messo nella forma di un percorso dall’esterno verso l’interno e dall’interno verso l’esterno « Et devant nous ce désert, son vide inviolable. J’essaie de réfléchir. Ne peut-on le rassembler autour d’une inspiration, puis d’une expiration? » (p.115), dalla distesa infinita che fa evaporare i luoghi in una domanda, può essere immaginata una grotta « chaude et sûre » per accogliere i sogni, unico aiuto contro la realtà. L’io dissolto può gioire nelle metamorfosi aeree ed immaginarsi « oiseau pourpre, oeil au centre sideré de l’air » e augurio di volo: « Que tout ce corps, de tous ses bras, de toute ses ailes, vole. » (p.117).

Se nella distesa infinita l’io corre il rischio di perdersi, scopre anche che è solo dopo aver fatto nel vuoto il proprio nido ed essere passato attraverso quella dissoluzione che potrà dire: io!. Un io non definitivo, ma in gestazione continua come il deserto: « à chaque instant, né de soi même, on s’accouche soi-même » (p.113), in cui ad ogni parto si perde qualcosa poiché cercando di raggiungersi, l’io non fa altro che perdersi.

In questo spazio del silenzio le parole si liberano alle rappresentazioni più impensabili e si propongono come ciò che dà verità  all’esistenza. « Parole, kun! Ce qui nous établit êtres de vérité et présents à la vérité » (p.72). Lì le parole possono essere immaginate nella loro fisicità, sperimentate in ogni loro possibilità di grido, riso, sussurro, canto,  dialogo sconnesso e « folles imaginations » (p.115) che le voci del romanzo mettono in opera.


CAPITOLO IV

Deserto e scrittura


4.1 Punto, linea e superficie

I due romanzi scelti per l’analisi ci permettono di operare un confronto basato sull’oscillazione di realismo, in cui cioè le due proposte di scrittura non tengono una posizione radicale da un lato e dall’altro. Il deserto di Timimoun, reso realistico da un preciso percorso spaziale ricco di toponimi e da una scrittura descrittiva, è sempre una rappresentazione della realtà in cui la funzione metaforica se da un lato allontana da essa, dall’altro l’avvicina per farne emergere il significato. La stessa cosa avviene nel romanzo di Dib in cui il deserto, per quanto astratto venga rappresentato, si definisce a partire da un confronto col mondo e con la realtà che sta al di là della rete, al di là dell’io.

Delineare un deserto reale ed uno irreale fa emergere le costanti di rappresentazione lungo percorsi di scrittura differenti. Attraverso la loro definizione sarà possibile stabilire nei diversi livelli di realtà intesa come storia[145] e come mondo, anche il significato di identità.

Il presupposto per definire un deserto reale e uno irreale attraverso la scrittura è che esso sia lo spazio di definizione e di ricerca della scrittura stessa. Vediamo come questo avviene concretamente nei due testi attraverso alcuni esempi.

La condizione di attaversamento che caratterizza immancabilmente la presenza del deserto nel romanzo, corrisponde al susseguirsi delle righe del testo che si fanno veicolo della scrittura, della lettura e del rivelarsi del senso. Ovvero il movimento nelle sue varie forme (viaggio, traversata, cammino, erranza, percorso turistico ecc.) è una costante tematica a cui corrisponde un’oggettivazione nelle linee del testo.

In T tale susseguimento prende la forma di groviglio, si tratta di un accavallarsi esplicitato dall’immagine dell’ «enchevêtrement » dei paesaggi  desertici (p.16), parallelo all’accavallarsi dei ricordi che vengono  srotolati nella linearità del testo. Il movimento della narrazione assoggettato al disordine della memoria, corrisponde al movimento in avanti del viaggio su piste che scompaiono, « le tracé peut se déplacer d’une minute à l’autre » (p.60), in cui il « tracé » della pista (che si confonde a causa della sabbia spostata dal vento) si fa metafora della scrittura mnemonica che segue le tracce intermittenti e confuse del passato. Abbiamo visto che l’assimiliazione dei ricordi alla forma del deserto (cfr.§3.2) corrisponde alla frammentazione dello spazio della narrazione che ha bisogno di una guida. Il narratore ricopre così il doppio ruolo di guida: del Sahara e della narrazione accavallata, che procede sulla stessa tipologia di piste a rischio di scomparsa, in cui perdersi significa anche perdere il filo della narrazione e del senso di linearità del testo.[146] E’ una guida che deve riassumere in poche settimane il Sahara nella sua complessità come lo scrittore che deve fare rientrare il deserto nello spazio limitato del libro.

« Je n’oubliais quand même pas mon rôle de guide qui essaie de résumer le Sahara si grand, si complexe et si variable en une ou deux semaines. (…) J’évitais les grandes axes et préférais les pistes parfois dangereuses parce que le tracé peut se déplacer d’une minute à l’autre. » (p.60)

 

Ed è proprio riuscendo a sfuggire alla costrizione e alla compressione della linearità che il deserto nel testo raggiunge l’impressione di illimitatezza del deserto reale.[147] Il deserto in T oltre ad essere metafora della memoria è lo spazio attivo del meccanismo mnemonico fondato sulla traccia che, come nel deserto attraverso la forza dinamica del vento, si sposta tra le linee del testo per la forza dinamica della narrazione.

« L’espace est pris d’assaut par des vents contraires. Tels des oiseaux voraces qui planent d’une façon acrobatique comme des somnambules fusant à travers les jardins sahariens imprégnés de l’odeur de fruits trop mûrs qui s’écrasent au bas des arbres. Des giclées granuleuses se collent sur le vitres du car. Elles se transforment très vite en traces grenues sous forme de lamelles. On aurait dit des balafres sinueuses  mais subtiles sur les vitres extérieures du véhicule acheté il y a quelques années à Genève, pour rien. » (p.12)

 

Queste immagini di deserto all’inizio del romanzo delle tracce di frutti dell’oasi portati dal vento nel deserto aperto (metafora delle tracce dei ricordi che arrivano da lontano e diventano cicatrici del presente)  si ritrovano più avanti nel testo, avanzando cioè nel susseguirsi delle righe. Quando il protagonista giunge a Timimoun ricompaiono gli stessi frutti che formavano le tracce granulose sul vetro e che ora compongono esplicitamente un “innesto” attivato dal profumo (dalla stessa forma sottile come le tracce) nel passato del protagonista.

« L’oasis de Timimoun possède des jardins de poche qui embaument en permanence une subtile odeur de soleil, de bois brûlé, de terres mouillées, de tissus moisis, d’abricots et de tomates séchés, de fruits suris et d’alun servant à nettoyer les canalisation. (p.95) Dans les jardins de Timimoun je sens les odeurs du soleil, de la chaleur et du froid, mêlées aux autres odeurs qui remontent à mon enfance (p.96) cette maison qui émet constamment un subtil et pénétrant parfum; mélange de tissus neufs, d’abricots séchés et de mûres pourries (p.97) Comme si la permanence de ces odeurs familiales allait de pair avec la permanence des odeurs sahariennes de Timimoun. »(p.98)

 

C’è poi un’altra corrispondenza tra le tracce occultate e messe in pericolo dalla sabbia e l’immagine delle tracce dei frutti che si ricollega alla visione del mondo in cui il senso scompare, come il senso del passato sulle piste e tra le righe. I frutti nell’oasi servono a tenere puliti i canali per lo scorrimento  dell’acqua che corrono continuamente il pericolo di essere otturati dalla sabbia. « Les jardiniers noirs effectuent un véritable travail titanesque et pénible pour empêcher les granulés de sable et les plaques de vase de boucher les canaux » (p.95).

Lo scorrere della vita metaforizzata nell’acqua dell’oasi e nel respiro del protagonista reso difficile dalla sabbia corrisponde sia  alla metafora della memoria come sorgente di vita che allo scorrere della narrazione lungo il tracciato del testo che corre lo stesso rischio di essere otturato, interrotto e soffocato dalla perdita del senso che invade il mondo e lascia solo il gusto « non-sense » della sabbia. [148]

Questi richiami tra le immagini costitutive del senso del romanzo e la sua dinamica esplicitata nelle linee del testo avvicinano il deserto reale a quello della finzione, l’esperienza della scrittura e della lettura a quello che può essere un percorso nel deserto. Nel romanzo di Mohammed Dib abbiamo visto che il cammino nel deserto, costruito sulla contrapposizione di mobilità e immobilità, si fa metafora della condizione della scrittura che proponendosi come pratica di sconfinamento raggiunge lo stesso obiettivo di far coincidere libro e deserto. Il cammino dei personaggi nel deserto esplicitamente dichiarato come cammino alla ricerca di un passaggio verso il senso, coincide con il cammino stesso della scrittura e della lettura.

« Nous continuerons de suivre notre route à nous. Celle qui va, qui mène au sens. Cette route si par hazard elle nous perdait, si elle le faisait, c’est pour que nous nous retrouvions ». (p.106)

 

Anche qui, esso è sottoposto al rischio salvifico della perdita, al deragliamento dalla strada-linea del testo costitutivo del cammino stesso nella sua complessità. L’immagine del deserto che aspira, dissolve e diffonde le direzioni (p.17) riflette la caratteristica della scrittura dibiana che procede per dispersioni delle direzioni del racconto. I due personaggi ad esempio iniziano un gioco, per dare un senso al loro stare nel deserto –« il faut savoir rester à sa place, et s’y accrocher et jouer, jouer même à qui perd gagne » (p.62). Essi fingono di dover ricevere un cancelliere in pieno deserto: Siklist recita la parte sotto la regia di Hagg-Bar che gli fa compiere diverse azioni insensate come scendere da una Rolls Royce, salire su una Pakard e ricominciare tutto da capo. Questo episodio sembra in un primo momento far prendere al racconto una direzione verso una dimensione teatrale e alla storia dei due personaggi una concretizzazione delle loro azioni in un avvenimento. Invece esso svanisce nello spazio desertico e nello spazio del libro in cui di questo gioco, che occupa poche pagine (57-64), non verrà più fatta menzione. Di nuovo la perdita è funzionale alla definizione di un cammino che è perpetuo inizio e del testo che si costruisce sul movimento continuo di cancellazione e ricreazione come nel gioco in cui Hagg-Bar invita più volte Sikilst a ricominciare : « retourne à ta place et recommence » (p.60). In questo modo il cammino della ricerca del senso che si compie nell’infinitezza e nella ciclicità del deserto, attraverso questa dinamica circolare va a coincidere con quella stessa infinitezza facendo della scrittura una pratica del deserto.

Oltre a questi richiami intratestuali, il senso di illimitatezza del deserto può essere realizzato nel libro da altre aperture che lo sottraggono alla sua finitezza, come ad esempio i richiami extratestuali che in un gioco di eco allargano lo spazio del libro stabilendo relazioni con altre scritture esterne che entrano tra le maglie del testo espandendolo.[149] Ne LDSD ad esempio compare un richiamo alla poesia pre-islamica, iscritto nella tematica del cammino come deciframento della scrittura vista come traccia sulla sabbia, l’atlal. L’inseparabile ombrello di Hagg-Bar appare agli occhi di Siklist come uno strumento di scrittura: « Monsieur Hagg-Bar, maintenant je sais pourquoi vous avez pris votre parapluie avec vous. Pour écrire dans le sable » (p.83). Nel deserto, spazio privilegiato della scrittura « Des écritures il y en a plein le désert » (p.84),  essa mette a nudo il suo destino di (con-)fusione a tutte le altre scritture già esistenti e confondendosi, si fa metafora della cancellazione dell’individualità della scrittura « notre écriture, notre signature » necessaria ad avvicinarsi al mistero della scrittura e alla scrittura misteriosa delle  tracce[150].

« Notre signature ira, sans plus, rejoindre les autres, se confondre avec elles et nous ne serons pas plus avancés. Dans le meilleur cas, il en adviendra d’elle…comme de ces…Les atlal[151]: tu connais pas? (…) Finalement on ne sait pas trop. Il faut se contenter d’à-peu-près comme: traces de campements abandonnés, signes  d’une écriture mystérieuse. (p.85)

 

Il nome assente dell’io narrante che rinuncia a lasciare la propria firma sulla sabbia per confondersi come altri nomi cancellati nella sabbia « Notre signature ira, sans plus, rejoindre les autres, se confondre avec elles » (p.84) permette alla scrittura a sua volta di farsi traccia lasciata per essere decifrata attraverso la lettura, traccia che nel suo essere soggetta alla cancellazione e ombra di una presenza da decifrare, porta verso la sorgente del senso della scrittura presente nel libro, « la source du sens » (p.101) cercata da Hagg-Bar.

Il deciframento delle tracce avviene attraverso l’ombrello di Hagg-Bar, oggetto apparentemente insensato nel deserto ma che nel suo paradosso mostra la necessità della sospensione del senso come strumento di lettura. L’ombrello ricopre infatti una funzione interpretativa delle tracce, è il mezzo per leggerle: « Le parapluie!…L’instrument pour les lire! Pour en suivre les lettres embrouillées, et les débrouiller » (p.85).

La lettura dunque viene presentata come atto complementare alla scrittura non solo per essere la sua destinazione, ma anche per essere costitutiva  della sua formazione e trasformazione. La pratica della scrittura si compie così anche attraverso un disseccamento, una pausa della forma per aderire ad altre forme, come la poesia del passato che crea per un istante un legame con la terra: « C’est la plume sèche qui sert à épouser chaque lettre sur le terrain, s’entend des écritures en question, éventuellement à les reconstituer, à les faire rendre au sol où elles se trouvent le plus souvent aux trois-quarts ensevelies. »(p.85).

Di questo legame si sente l’eco nella poetica dell’accampamento che percorre il romanzo e che caratterizza la poesia pre-islamica e delle popolazioni nomadi. L’abbandono del campo, motivo di ispirazione e prima parte della struttura classica della Mu’allaqa,[152] riprende forma ne LDSD per farsi metafora della lontananza dal paese d’origine. Aderendo a quel terreno, « épouser chaque lettre sur le terrain », con un mezzo surreale come l’ombrello, Dib ricostituisce lo spirito della poesia del passato in una dimensione moderna: la composizione della scrittura come gesto di accampamento (bayt, il verso nella  poesia preislamica, significa tenda) che crea l’unità nella fragilità e nella precarietà della scrittura errante. Nei versi della Mu’allaqa c’è la stessa idea di scrittura consustanziale all’abbandono: « le campement déserté, est comme un texte dont une plume aurait renouvelé les lignes, un tatuage ravivé »[153],  la scrittura che nasce dall’abbandono e si fa tatuaggio rinnovato della perdita del romanzo di Dib: « (les atlal) ce sont campements du vouloir dire, haltes du sens. Tatuages aussi comme au front des femme, dont la coquetterie à elle seule n’expliquerait pas le port. » (p.86). L’idea di accampamento rappresenta nel romanzo il passaggio necessario verso il senso, quella sosta in cui esso si sospende e crea lo spazio per l’impensabile, per l’indicibile, per « l’éclat des notes inaudibles » (p.136) che la comunità ritrovata da Siklist, rappresentazione dell’accampamento ricostituito, gli permette di percepire.

« Le chef s’avance vers lui et tapant toujours des mains, feint de trébucher, mais c’est pour marquer en fait le contre-temps, la pulsion d’une frénésie domptée. Il lui a fait voir l’éclat de notes inaudibles. « (p.136)

 

Il termine del romanzo rinnova un’apertura della fine verso un nuovo inizio della lettura per accedere a tutto ciò che durante il romanzo non si è sentito: « l’indicible est comme en représentation, quelque chose se passe qui ne devrait pas être vu. » (p.135) dando anche alla lettura la circolarità infinita del deserto e della scrittura.


4.2 Il deserto irreale di Dib

I caratteri del deserto ne LDSD si sottraggono a una sua definizione per sancirne un’impenetrabilità.[154] Il deserto oltre la rete e al di là dell’io si configura come l’altro da sé, come un’alterità indefinibile che nel suo mistero racchiude una sacralità che il linguaggio non può descrivere o catturare con un significato. Si crea così un gioco di forza e di tensione tra la possibilità di istaurare un senso attraverso le parole e la sua negazione. La negazione d’altra parte è un modo preferenziale per in-definire il deserto: « il n’y a que ce feu », « il n’y a lieu que de soulever des questions », « ce lieu qui a l’air de n’être d’aucun lieu », « il n’y a que le désert. ».  Il vuoto, la distesa e la distanza non offrendo nessun appiglio concreto, « cet espace où le regard ne sait où se poser » (p.40), spingono l’immaginazione oltre la barriera dell’impenetrabilità attraverso la visionarietà e, in un passaggio graduale, al sogno. Nei primi capitoli il narratore passa dalla cecità provocata dall’attesa davanti alla rete « Nous attendons. Quoi: nous ne le voyons pas » (p.12), alla vista « Et nous voyons » (p.26) dei due uomini che giocano a palla, per arrivare alla percezione dell’ermafrodito, attraverso le maglie della rete, che viene definita « illusion, bien sûr, rêve » (p.38). Il passaggio dalla visione al sogno è necessario ad esprimere il terrore e la vergogna verso l’orrore del male all’opera nel mondo, di fronte al quale la percezione è un illusorio strumento di comprensione. Dib nega la scrittura realista basata sulle percezioni sensoriali perché è un linguaggio che non arriva ad esprimere il senso profondo delle cose il quale necessita di passaggi e attraversamenti, di deciframenti dei segni, dell’annullamento del senso e del suo ritrovamento, mentre il linguaggio realista scivola sulla superficie e si dissecca senza arrivare ad essere inteso. Le cose non sono mai solo per come appaiono, così come un solo nome non basta a darne il senso.[155] L’innocente gioco a palla non è infatti quel che sembra. Esso si trasforma in  uno spettacolo di orribile violenza del fronteggiarsi della dualità. La vista allora si rivela uno strumento passivo che fa subire il male e lo spettacolarizza[156].

« Et voici que ce ne sont plus deux hommes qui se défient et se mesurent ainsi. Ce sont deux espèces inconnues de bêtes, grandies soudain en taille. (…) Combat livré par des monstres en forme d’étoiles sauvages. (…) nous n’assistons qu’à ce ballet dont nous ne voyons, sentons que l’horreur qu’il diffuse pour nous submerger à notre tour d’horreur Dans sa beauté maudite, un spectacle infâme que vous ne pouvez que regarder de tous vos yeux en même temps que vous avez honte de le regarder. » (p.26).

Il sogno dell’ermafrodito si propone come superamento successivo a ciò che gli occhi possono vedere, il ricorso all’immaginazione per far fronte creativamente al male. Il suo primo stadio passa attraverso l’illusione del bene, ovvero dell’unità intatta della creazione in cui, nell’assenza della divisione, le dualità bene/male, io/altro non esistevano.

« Un éphèbe, un et unique, nu autant que défendu, habillé par sa nudité. Un monde de plantes, pensez donc, l’environne, un monde d’oiseaux, de bêtes; illusion que tout cela, bien sûr, rêve. » (p.38).

 

L’illusione allora si rafforza in un sistema invincibile di sogni contenuti uno nell’altro, un mezzo attraverso il quale è possibile ritrovare l’unità in una sua nuova definizione. Così il sogno invade anche la parte in tondo del romanzo superando il moto circolare di annullamento messo in atto dal vuoto del deserto per risucchiare il sogno e la sua possibilità di instaurare il senso e, al tempo stesso, conservarne l’enigma.

« Puis le désert s’est reconstitué, s’est rendu à lui-même, simulant à nouveau cet espace où le regard ne sait où se poser. Et se rejoignant comme il vient de le faire, il a englouti ce qui un moment auparavant prétendait s’y instaurer, s’y conserver. Mais le songe nous en poursuivra dans la grotte la plus profonde où nous chercherions refuge: abîme qui s’ouvre et nous ouvre. »(p.40)

 

Siklist sogna l’avventura di un contadino gabbato dalle apparenze. Sulla via del mercato due truffatori dopo avergli rubato l’asino, gli fanno credere che esso ha solo cambiato forma prendendo le sembianze di un uomo. Quando si reca alla fiera per comprarne un altro, riconosce il suo vecchio asino e temendo che di nuovo possa cambiare aspetto ne sceglie un altro, uno vero. Nel suo sogno tutto ha inizio grazie ad un capovolgimento della vista e delle percezioni. E’ infatti un occhio che non vede, « un gros, très gros oeil, tout en prunelle, tout blanc (…) pourtant » (p.44) ma che ha la facoltà di mostrare le cose. Il sogno si propone così come modo per mostrare l’indicibile: la distanza tra la verità e l’apparenza che si crea quando la parola si allontana dal significato. « L’indicible est comme en représentation, quelque chose se passe qui ne devrait pas être vu. Ou sinon comme une vision où transparait le regard qui se pose sur elle. » (p.135). E’ solo nel sogno che il linguaggio accede ad un’espressione comprensibile e lineare nella scansione delle scene. Il racconto del sogno di Siklist è infatti ricco di puntualizzazioni temporali che compensano il vuoto spazio-temporale del deserto. Il sogno inoltre è il mezzo per vedere ciò che nella realtà non si può vedere, come fa notare Siklist « Vous savez ce qui m’a plu le plus dans ce rêve? C’est d’avoir vu toutes ces plantes. Oui, tous ces legumes » (p.52).

La mise en abyme dei sogni entra anche nella parte in corsivo del narratore che sogna due uomini in cammino nel deserto, allargando il senso del cammino di Hagg-Bar e Siklist, reso incomprensibile dallo spazio che si allarga a dismisura e dall’immensità che si chiude.  Nel suo sogno essi camminano su un albero che simboleggia una struttura di fondo ideale della strada, l’idea del cammino che nasce dal suo desiderio e si fa necessità, anche quando la strada svanisce con l’annullamento delle direzioni.

« Une route est un arbre qui pousse couché. Où que vous vous trouviez, vous êtes sur l’arbre. Eux, on voyait combien ils demeuraient accrochés à l’arbre. (…) Rester pourtant et toujours en  route, ils estimaient à l’évidence qu’il le fallait. Et ils marchaient, jamais troublés, jamais pris d’un doute quant au sens de leur marche alors que le contraire aurait été plus naturel. (…) Ils avançaient parce qu’ils croyaient que ça les avançait. En quelque sorte ils étaient arrivés et ne le savaient pas. » (p.55) 

 

Il sogno è quindi il mezzo linguistico per esplicitare il senso in sé del cammino, il senso primario dell’azione che nella sua semplicità realizza la sua ragion d’essere. E quando il deserto di nuovo sembra annientare i passi in avanti compiuti dal senso « l’espace paraît s’être élargi encore, seule réalité certaine. (…) Le silence ayant suffisamment duré, pesé, le plus jeune s’inquiète et met en avant qu’un noeud d’interrogations » (p.66), il sogno si fa più grande, aprendosi alle profondità preannunciate dal narratore, che aveva parlato al futuro dell’immagine della grotta (p.40) come rifugio ed apertura dei sogni « …Oui, la grotte est toujours chaude et sûre où nous visitent les rêves. » (p.69). Il sogno concretizza così anche il senso del cammino narrativo attraverso la consequenzialità delle sue apparizioni.

I sogni sono il soccorso e l’aiuto per affrontare la realtà, che non è semplicemente ciò che si può vedere alla luce del giorno, è « une autre veille. Invincible au regard de la veille diurne » (p.69), è ciò che esiste al di fuori dell’interiorità e che si impone  nella sua alterità incomprensibile. Per pensarla è dunque necessario capovolgere e moltiplicare i termini: sognare d’essere il sogno di ciò che sta di fronte « Nous sommes les rêve du désert », annullarsi e sospendersi nel sogno per poter scorgere l’altro da sé. Il sogno si fa per l’io strumento di comprensione della realtà nella sua alterità del presente, e, per mostrarla, diviene strumento della rivelazione iscrivendosi in una dimensione mistica: « ce grillage ne nous révèle pas moins à travers ses entrelacs ce qui sans contexte veut se faire adorer de nous aujourd’hui. Mais nous avons l’Indivis. » (p.69).

Il sogno apre la via alla verità del male e del bene che necessitano di un’interpretazione, una verità inaccessibile che può essere sfiorata attraverso l’immaginazione che nella tradizione islamica è principio di verità :

“Lorsque le Prophète a dit: les gens dorment, et quand ils meurent ils se réveillent, il a attiré l’attention sur le fait que tout ce que l’homme voit durant sa vie terrestre correspond aux visions de quelqu’un qui rêve, imagination qui exige une interprétation. L’univers est imagination/Et il est vrai en vérité./Celui qui comprend cela /Saisit les secrets de la voie.”[157]

 

La realtà al di là dell’io fattosi sogno mostra il male nella forma di una visione dai contorni mobili. Si tratta di un soggetto né maschile né femminile, « Elle, façon de s’exprimer, on pourrait aussi bien dire Il et ça ne changerait rien » (p.70) che prende progressivamente l’aspetto di una macchina complessa, simbolo della seducente chimera del progresso tecnologico.

« L’idole nouvelle, la Prostituée avec ses airs luxurieux. Certes tout donne à penser qu’il s’agit d’une machine. Telle elle est, luxurieuse, luxuriante, une machine, un extravagant assemblage de poutre métalliques, une construction arachnéenne, tuyaux, échelles, câbles, potences, consoles, cintres, antennes; (…) une araignée qu’on n’aurait pas tort de qualifier d’infinie, telle qu’elle semble se faire de soi à partir de soi-même et, sans trève ni répit, se parfaire, se modifier, croître jusqu’au ciel. En incessante action –gestation?- , ainsi posée dans le désert, cette chose, monstre de force et de vitalité inventive, illusoire sans doute, qu’est-ce: une Chimère destinée à inspirer la séduction, la terreur, le respect? Ouais. Où en est le coeur? » (p.70)

 

E’ una realtà in cui il dispiegamento della forza del male nell’allargarsi dello spazio è incomprensibile all’uomo nella sua fragilità ed inconsistenza « que sommes- nous parmi les hommes? Nous, autant le dire, des riens du tout » (p.71) che si appella a Dio, come ultimo ricorso contro la deriva del senso messo in atto dal male « Le mal: ce en quoi tout se perd et perd jusq’à son nom » (p.115). L’io in quell’espansione e disperdimento, nelle profondità più estreme, incontra la preghiera che mostra la possibilità delle parole di ristabilire una vicinanza tra il segno e il significato, tra l’apparire e l’essere delle cose: le parole del fiat divino.[158]

« En appeller à l’Indivis, notre dernier recours, notre secours. Voyez comme, emprountant son souffle à l’ouragan incendiaire qui nous fouaille, la Prostituée, l’Araignée, creuse d’elle même l’espace et l’étend, l’ordonne. Jusqu’au point, le plus profond en moi, où tombeau, j’entends ma voix détimbrée dire:”Imân,islâm, ihsân”. Dire : “Intelligence avec les choses, avec tout, liberté de la parole”.Et encore: “Parole, kun! Ce qui nous établit être de vérité et présents à la vérité. » (p.71)

 

E’ una possibilità che si può intravvedere per un attimo ma non è di questa terra, in cui l’io vive in uno stato di divisione e non di perfezione. Il detto profetico « Imân, islâm, ihsân » allude infatti al buon agire di Maometto di fronte all’Arcangelo Gabriele. “Sa science prophétique, son haut degré d’imagination, son juste éveil à la vérité lui permettent d’interpréter l’apparence humaine et lui assurent la bonne maîtrise de soi lors de la rencontre ultime”[159]. L’io narrante può avere solo un’impressione onirica di quella comprensione, sufficiente però a dargli il senso d’esistenza, « pourtant je ne cesse d’être » (p.72) ma nel momento stesso in cui si manifesta, viene annullata da un’altra domanda che sancisce l’esistenza come è un’interrogazione senza fine.

Il sogno permette dunque all’io di avvicinarsi al senso e di farne un’esperienza che nella sua irrealtà può mostrare la verità indicibile.

L’io, uscito dall’arco del sogno e dalla dissoluzione necessaria a farsi sogno, fortificato dalla preghiera ritrovata, può sperare nella possibilità della riconciliazione dell’unità originaria del suo essere, « me réconcilier, moi l’ombre, avec celui qui la projette » (p.107), possibilità che all’inizio del romanzo sembrava distante quanto l’occidente dall’oriente, l’io dalla propria ombra,  distante quanto tutta l’estensione del deserto che sta in quel mezzo.

« Mon nom à moi? Oh, je n’aimerais avoir à le dévoiler. Par ce désert qui nous regarde, nous entend peut-être, je n’aimerais pas. Un nom, ce nom, le demanderiez-vous à une ombre, en occident quand celui qui la projette se trouve en orient? » (p.13).

 

La riconciliazione dell’io per realizzarsi passa attraverso la metamorfosi, la scomparsa di una forma per svelarne un’altra. Hagg-Bar « foudroyé par l’excès du jour » (p.124), pietrificato dalla risposta che ha ricevuto sul suo nome e sulla voce misterioriosa che gli ha permesso di sentirlo, scompare nella sua forma di buffo personaggio dalla pancia scoperta e si trasforma in un idolo:

« les vents se sont levés, ils soufflent en tempête du sable. Des trombes, des cataractes de sable. Ils en accumulent sur lui, planté à sa place. Et plus d’Hagg-Bar. Là où il se tenait, à l’endroit, dans le crépuscule qui enveloppe maintenant la terre, à l’endroit même, une idole se dresse » (p.126)

 

Impossessarsi dell’io, prenderne coscienza attraverso il suono della sua voce che sale dall’interiorità e attraverso l’ombra che si allunga dietro le spalle, è un atto che riveste una sacralità e un mistero. Insieme ad Hagg-Bar anche tutto lo spazio circostante subisce una metamorfosi. Il deserto si infiamma, « ce sables où il n’y a plus de route et simplement un feu dont les flammes courent plus loin allumer d’autres flammes » (p.120), « la température monte » (p.126), e infine arriva il crepuscolo. Anche il deserto trova la riconciliazione dei suoi opposti del giorno e della notte. La notte dopo un’assenza durata lungo tutto il corso del romanzo, lungo tutte le righe del testo, arriva e muta il peso specifico del deserto.

 

Anche la preghiera del narratore diviene augurio di metamorfosi:

« A l’extrême, au fond noir de l’oubli, sombre, je serai mémoire de désert et oiseau à venir survoler le désert. L’oiseau pourpre de toujours. (…) qu’à la mesure du ciel, il se fasse oeil au centre sidéré de l’air, une aspiration le voudrait-elle arbre de vie, ombre, une foudre le voudrait-elle jour et de nouveau blancheur de feu, le voudrait-elle beau unique. »(p.117)

 

L’aspirazione dell’io è il passaggio da una condizione all’altra, un inizio perpetuo nel mutare delle forme che conducono al riconoscimento dell’unità dell’io nella molteplicità, composta di parti sconosciute che spingono alla continua ricerca attraverso la parola.

« Que je sois le dernier des hommes si je continue à vouloir n’être que moi entre deux, etre trois, quatre, cinq autres moi. Que chaque mot me revienne prononcé par l’un ou par l’autre d’entre eux, issu de la même source noire de la parole.» (p.128)

 

Il sogno ha nella sua fine una potenzialità di rinascita: gli occhi si riaprono ad un nuovo inizio che mostra qualcosa che prima non si era scorto.  L’io nella sua molteplicità, scopre il cambiamento del proprio viso « Ai-je commencé à prendre un autre visage? » (p.128) e il mutamento del deserto che si fa leggero e può fondersi all’io entrando nel suo respiro, « Maintenant la légèreté de l’espace s’installe dans ma gorge » (p.128).

L’immaginazione e il sogno iscritti in una dimensione  mistica sono i mezzi che permettono all’io di riconoscersi e comprendersi nella diversità e nella molteplicità « “Siklist se comprend” se dit Siklist, et les autre chantaient déjà ». (p.136). Il vuoto e la frammentazione dell’io sono la conseguenza del vuoto circostante, del vuoto del deserto che incarna il mondo che ha perso il senso della storia e del luogo « Nous n’avions déjà pas d’histoire (…) Ce lieu qui a l’air de n’être d’aucun lieu ». (p.13), un mondo afflitto dal male della divisione non solo dell’individuo e delle comunità ma ancor prima dalle parole e dal linguaggio. Le parole si sono allontanate delle dalle cose impedendone un’aderenza e un’intelligenza che viene invocata attraverso la preghiera e il ricorso a Dio, l’Indivis che incarna il bene supremo  dell’unità, unico ricorso contro il male della divisione, cominciata come dice Hagg-Bar, « bien avant nous » e perpetuata nel tempo presente in cui le parole non producono un senso ma solo domande che bruciano il terreno e calcificano il mondo.

« Incertain l’horizon et sèche l’odeur de pierre d’un monde qui se consume à son propre feu. Un monde un désert, et la fièvre du désert. » (p.72).

 

Il mondo viene così rappresentato privo di caratteri reali, sospeso come la domanda reiterata, in allontanamento per la paura della pietrificazione della risposta.

« Mais dans ce monde ni vivant ni mort, vous auriez peur, vous que la moindre question posée à propos de n’importe quoi ne reçoive comme réponse une question, qui à son tour ne recevrait comme réponse qu’une autre question et ainsi de suite de proche en proche et aussi loin que vous alliez avec vos questions et que si par hazard une réponse était donnée à une seule question, ce monde, aurait plaisir à se pétrifier du coup. » (p.38)

 

E’ ciò che succede ad Hagg-Bar che, non volendo ascoltare il proprio nome, finisce  per essere pietrificato dalla serie di domande che pone. Questa metamorfosi, per quanto possa far paura per il suo mistero, incarna il passaggio di stato delle parole, che da sostanza aerea si fanno materia solida : reale.

Senza il silenzio e l’ascolto l’identità non può essere “sentita” in profondità, essa si esprime nell’afasia e non attraverso le parole generate dai dialoghi inutili che creano diabolicamente  pesanti catene.

« L’aphasie, d’où émerge l’identité: obscur visage ancestral avec la terreur qu’il irradie, visage tout en sang proposé au jour, opposé au monde, blessure perpétuée de génération en generation? Ne parle-t-elle qu’alors?et sans qu’ils (Hagg-Bar e Siklist) ou qui que ce soit marquent une ombre de surprise comme si eux  ou qui que ce soit l’entendant en convenaien, eux ou qui que ce soit qui n’entendent jamais rien. Mais ce tiers dont leurs discours modèlent l’image cependant qu’ils s’évertuent à l’exclure par une cohérence volontaire ou involontaire, tiers qui a malgré cela sa place entre eux et qui la garde, n’est-ce pas lui le Diable et lui qui leur forge des chaînes toujours plus lourdes ? Ces chaînes aux mailles d’acier qui sont mots » (p.54)

 

La scrittura di Dib invita così all’ascolto dell’inudibile attraverso l’immaginazione e il sogno, alla pausa del senso che si produce nel tempo debole: quello del silenzio del battito. Nello spostamento dell’accento di un ritmo, come in quello del senso della parola, è possibile fare esperienza dell’indicibile, dell’inaudibile, di un bagliore meraviglioso.


4.3 Il deserto reale di Boudjedra.

Ciò che fa pensare ad un deserto reale in Timimoun è la presenza di alcuni dispositivi realistici. Il più immediato è il ricorso a riferimenti toponomastici, a partire da quello che compone il titolo del romanzo, che ordinano la narrazione lungo un perscorso verosimile nel deserto. La guida infatti segue un tragitto ben definito per attraversare il deserto che viene scandito dal passaggio in luoghi reali: El Goléa-Timimoun e Timimoun- El Goléa-Algeri. Il deserto è il luogo dell’azione, in particolare è il deserto del Sahara e, restringendo ancora il campo, si tratta della parte nord-ovest del Sahara che coincide con il cuore del territorio algerino. La toponomastica viene quindi utilizzata per comporre il percorso e per dare riferimenti spaziali reali all’azione che si svolge nella finzione del romanzo. Oltre alla toponomastica del tragitto scelto dalla guida compaiono infatti anche altri luoghi del Sahara algerino, che vengono associati a qualità specifiche morfologiche o sociali. Ad esempio Fatis è « un village à demi ensablé », Macine è luogo di « marché aux dromadaires » (p.59), l’Hoggar si caratterizza  per « les monstrueux rochers noircis et calcinés » (p.115), Timimoun per il sistema d’irrigazione, « cent soixante-quinze kilomètres de galeries » (p.77), « la palmeraie, l’immense chott, uno ksar bien protégé, bâti sur les hauteurs septentrionales du Tademait » (p.72) « la fumerie » (p.71), « le minaret » (p.78).

Attorno al termine deserto si intesse così un’ampia rete semantica formata da diversi insiemi che si intrecciano tra loro: quello toponimico, quello morfologico e quello simbolico. Il primo è quello dell’oggetto in sé, esistente a partire dal nome proprio (prescindendo cioè dalle proiezioni del protagonista o dal senso che hanno per lui) con un numero definito di espressioni: il deserto è  « Sahara », « Timimoun », « El Goléa », « Tassili », « Macine », « Fatis », « Ighzer », « Hoggar », « Tademait », « Assekrem ». Questi  luoghi nominati rimandano a loro volta ad altri insiemi, quello dell’Algeria come nazione, territorio e patria, quello della regione climatica del Sahara che rimanda all’insieme più vasto della Terra. Un altro insieme di espressioni si riferisce alla morfologia del deserto che traduce la varietà e la complessità del sistema che esso compone attraverso le forme paesaggistiche: « chott », « erg », « oasis », dalle caratteristiche diversificate « falaises », « dunes », « montagnes », « rochers », composte da varie materie « roche », « sable », « éboulis », « eau », « sel » e da varie tipologie (ad esempio: nel reg, ovvero il deserto pietroso presente nel romanzo attraverso i nomi propri di luoghi –Assekrem, Hoggar- le montagne di roccia nera sono schisteuses). Il valore di questo insieme non è dato tanto da una contiguità metonimica prevedibile (reg-montagne-roche-pierre), che pure a volte appare nella sua nudità, quanto da una corrispondenza a livello della struttura del romanzo e del suo messaggio. Il deserto nella concretezza delle sue forme, della materia e delle dinamiche in atto ( come l’erosione o la stratificazione) è un centro di senso a partire dal quale si definiscono altre realtà astratte. Le carattteristiche oggettive del deserto, a partire dal nome proprio dei luoghi fino al colore dello « chott », costituiscono la realtà in sé del deserto,   il suo senso neutro « ce qu’on appelle communément un désert » (p.50) che esiste a prescindere dalla soggettività del narratore e lo rende « essentiel et concret » (p.16) costituendone una « autonomie totale » (p.50). La realtà viene cioè riconosciuta nella sua varietà e trova un corrispettivo nella varietà di nomi che possono chiamarla (è una realtà che può essere nominata, al contrario di quella di Dib) farla apparire attraverso le infinite combinazioni possibili tra i vari insiemi.[160]  Non si tratta però di una realtà immobile, ma di una realtà che mostra la possibilità continua di farsi astratta, accentuata dalla condizione del viaggio che sottopone il deserto e l’io ad un processo di trasformazione e quinndi di perdita. Agli insiemi topologici e morfologici dobbiamo aggiungere quello dei termini simbolici che definiscono un deserto soggettivo. Questo si va a sovrapporre a quello oggettivo, a volte inglobandolo completamente e producendo uno spostamento dal deserto reale verso quello astratto con la sua perdita.

« Le car avance toujours parmi l’inextricable enchevêtrement de ce désert entrevu quelques instants plus tôt, au coucher du soleil, composé d’ammoncellements désordonnés, de dunes interminables, de montagnes schisteuses et d’éboulis en tout genre qui saturent l’espace, le bouleversent et le rendent essentiel et concret. Le car, dans l’obscurité,  donne, cependant, l’impression de filtrer à travers les phénomènes abstraits et les éléments minéraux qui portent la calcination du monde à la démesure. (p.16-17)

 

In questo passaggio infatti gli elementi minerali che compongono il deserto reale dotato di un senso in sé, partecipano tanto quanto i fenomeni astratti a formare l’immagine della smisurata calcinazione del mondo, sinonimo della perdita del senso. Se è vero che il deserto è un centro di senso a partire dal quale si definiscono altre realtà, è anche vero che queste possono prendere il sopravvento annullando la possibilità di vedere il senso in sé delle cose e la facoltà del linguaggio di poterle descrivere. Il quei momenti infatti il deserto reale svanisce o diviene indescrivibile « Maintenant il n’y a plus de désert ».(p.12), « à gauche, à doite et de face: le désert. Hiéroglyphes indescriptibles » (p.16), « Le désert s’évanuit alors » (p.62), per lasciare posto a quello astratto. I passaggi dalla forma concreta a quella astratta avvengono comunque in concomitanza ad una dinamica interna al deserto direttamente legata alla percesione visiva : la luce che, quando è troppo forte o si assenta, produce un dissolvimento delle forme.

 

« la ville moderne, le ksar, la palmeraie qui deviennent, avec le changement rapide de la lumière, des détails de plus en plus brouillés, flous, brisés. Parce que le désert avec son espace et sa clarté réduit les choses et les rend approximatives et schématiques.(…) Toutes ces formes, tous ces volumes et toutes ces couleurs sont véhéments et criards au plus fort de la lumière. Ils deviennent délavés et décolorés à sa plus faible inténsité. C’est vert ou ocre ou bleu ou rose ou jaune ou beige. Avec des couleurs passés, pâlotes, fades et translucides, parfois. Et des couleurs fortes, flamboyantes et presque aveuglantes, d’autre foi. Mais c’est avec le coucher du soleil que la réalité bascule. Le monde n’a plus de sens. Ou plutôt, il le perd. L’ensemble architectural se transforme, alors, en hachures, en tracés et pointillés. Sortes d’épingles coloriés se dédoublant et se multipliant d’une façon infinitésimale, à la façon des peignes et autres canalisations qui distribuent l’eau  dans les jardins minuscules de l’oasis. (p.93-94)

 

La realtà è fatta di questo alternarsi tra la definizione e la sua cancellazione : la stessa dualità del deserto, quella che produce il movimento nel quale sta racchiuso il suo senso positivo. E’ una dualità che incarna un senso armonico, come il ritmo del respiro, ma che allo stesso tempo può essere il caos del movimento accelerato che va verso la disintegrazione. Entrambi questi aspetti del movimento sono presenti nel romanzo e si contrappongono simboleggiando l’ideale e l’accettazione del reale.

Il viaggio del racconto precede infatti verso l’ideale armonico dell’oasi di Timimoun, città ideale della vita, dell’amore, del caos della natura domato dalla razionalità. Il complesso sistema di irrigazione rappresenta lo sforzo umano per costruire uno spazio armonico « un Eden à force de travail et d’ingégnosité ». (p.78). La tensione verso l’armonia si riscontra a partire dalle descrizioni “ordinate” che cercano una corrispondenza con lo spazio matematico che governa l’oasi.

« Timimoun possède des canalisations en forme de peignes à l’aspect complexe qui distribuent l’eau à chaque jardin et répondent à une combinatoire infinitésimale. (…) Chaque opération de partage de l’eau donne occasion d’une répartition de débit initial en débits dérivés, puis en débits sous-dérivés, donc en nouvelles canalisations dont le nombre se multiplie à l’infini. » (p.77)

 

La logica dell’accesso alla vita simboleggiata nell’acqua segue il principio matematico della derivata infinita, in cui è impossibile stabilire l’inizio, ma attraverso il calcolo integrale si può stabilire la somma di infiniti termini infinitesimi, ovvero un’area idealmente omogenea. L’oasi così descritta, rimanda all’idea di uno spazio geometrico, in cui ogni canale trova il suo senso d’essere nella relazione reciproca e come i punti dello “spazio omogeneo”, si fa espressione di un rapporto ideale[161].

L’oasi racchiude in sé anche l’ideale di un’armonia sociale, anch’essa costruita su una divisione geometrica dello spazio e dei ruoli.

« Les canalisations distribuent l’eau dans les jardins minuscules de l’oasis d’une façon rigoureuse et diversifiée, d’une complexité étonnante. D’autant plus que le réseau de distribution est organisé selon les dimensions du jardin, les structures des castes et des classes et les arbres généalogiques des habitants du ksar que le maître des eaux, élus tous les trois ans par la population, régit d’une façon admirable, en véritable artiste doublé d’un mathématicien infallible. » (p.94).

 

Ma in realtà tale armonia si rivela essere una chimera inaccessibile, come l’amore che proprio a Timimoun naufraga nel tradimento di Sarah. La lussureggiante vegetazione, armonia visibile della razionalizzazione dell’acqua,


è il centro di un dolore incommensurabile espresso dal grido degli uccelli. L’ordine è nascosto sottoterra, è invisibile, inconsistente di fronte al caos e al dolore del mondo che, subito dopo la fuga di Sarah col giovane musicista, si manifesta nella notizia di un nuovo attentato. L’inserimento delle notizie degli attentati si pone come elemento di frammentazione della linearità del racconto e rappresenta l’invasione del caos della realtà su un ordine e un’armonia puramente ideali già manifesto nella scrittura attraverso la narrazione frammentata, nell’io del protagonista « dispersé et éparpillé entre moi-même et ma propre mort » (p.119).

Le notizie degli attentati sono l’altro dispositivo realistico del romanzo che sfalda anche l’unità stilistica della scrittura. Sono infatti estratti da titoli di giornale quindi molto sintetici e, scritti in maiuscolo, con una spaziatura bianca più grande, creano un campo visivamente diverso nella successione delle linee del testo. Sono presenti in ogni capitolo ad eccezione dell’ultimo in cui il protagonista si riconcilia con se stesso e può affrontare direttamente la realtà evocata dagli annunci nella città di Algeri, verso la quale si sta dirigendo. Zohora Riad afferma che essi non entrano nell’intreccio della narrazione dando di conseguenza l’impressione di un accantonamento del reale. A nostro avviso essi costituiscono una parte fondamentale della riflessione sul reale e del messaggio stesso del romanzo.[162]

Per quanto riguarda l’intreccio, l’annuncio dell’attentato è punto di partenza della storia d’amore con Sarah. Il protagonista si innamora di lei proprio in seguito alla sua reazione di dolore per l’attentato al Professore Ben Said, che costituisce il primo annuncio nel romanzo. In lei, così fredda e riservata, vede per la prima volta un’umanità che contrasta col suo carattere e rende il suo sguardo meno duro e impenetrabile[163]. In seguito a questo episodio il narratore prende coscienza del suo innamoramento: « C’était la première fois que j’étais profondément bouleversé par une femme. »(p.29)

L’intertesto degli attentati è intimamente legato alla rappresentazione del deserto e ne allarga il senso metaforico alla realtà dell’Algeria, richiamata nel corso del romanzo dall’insieme toponomastico. La violenza e lo sconvolgimento degli attentati si ritrova infatti nelle descrizioni metaforiche del deserto in cui domina il caos di un mondo scombussolato .

« le Sahara est ce lieu où se chamboule et se fracasse le monde. » (p.113), « c’est le lieu idéal pour souffrir, le lieu où se révèle toute la mesquinerie humaine » (p.114),

« Personne ne connaît la souffrance s’il n’a pas regardé du haut de l’Assekrem ce chamboulement cosmique qu’est le Hoggar.(…) Le Sahara c’est ce grabuge intolérable du monde, ce bouleversement incroyable de la géographie et de la géologie. » (p.56).


Lo « chamboulement cosmique » che fa del deserto un luogo di sofferenza, invade anche l’armonia ideale dell’oasi con l’annuncio di un nuovo attentato. Il dolore che esprime il deserto pietroso, nell’oasi si fa grido collettivo del mondo infelice che va oltre la storia personale del protagonista e della sua famiglia, invade l’intero paese e si fa segno distintivo del mondo.

 

« Je croyais alors que ces cris d’oiseaux étaient un peu le raccourcis de tous les pleurs, les lamentations, les gémissements, les hurlements, les soupirs et les chuchotements non seulement de ma famille mais de mon pays dans sa totalité et du monde entier fondamentalement malheureux, épuisé de chagrin, de malheur, de guerres et de deuils que le terrorisme ignoble et déchaîné amplifiait:

...UNE FEMME DE MENAGE AGEE DE 46 ANS ET MERE DE 9 ENFANTS A ETE ABATTUE DE DEUX BALLES DANS LA TETE ALORS QU’ELLE REVENAIT DE SON TRAVAIL…(p.83) »

 

Questa visione tragica della realtà del mondo viene costruita attorno ad un elemento della realtà circostante: la percezione sonora delle voci degli uccelli dell’oasi. La loro osservazione diviene anche uno strumento di riflessione sui possibili atteggiamenti di fronte a quella realtà che concretizza l’attuazione di una scrittura realistica impegnata. Ci sono infatti due gruppi di uccelli, quelli che osserva Sarah e quelli che osserva il narratore.

 

« Sarah s’entêtait à considérer les immenses palmiers comme un refuge pour tous les oiseaux du monde. Ses préjugés et ses partis pris resurgirent violemment en elle. J’avais remarqué qu’elle évitait de lire les journaux dont les titres étaient souvent consacrés au terrorisme.(…) Le gazzouillis des oiseaux se diluait dans l’atmosphère prodigieusement lumineuse malgré la disparition du soleil. (p.80-81). »

 

Sarah traduce l’immagine di chi cerca di rifugiarsi in un ideale armonico che lo separi dalla realtà,  che gli permetta di non vederla « elle évitait de lire les journaux ». E’ lo stesso atteggiamento che ha nel momento in cui viene rifiutata dal protagonista, di chi vuole estraniarsi dal mondo: « elle s’enfonce dans le siège de plus en plus, comme si elle voulait se couper du monde. (…) Elle était comme frigorifiée, comme morte pour moi maintenant » (p.126). Gli uccelli che osserva lei cinguettano e finiscono per addormentarsi. Si tratta di uccelli che non sono ancora tornati al nido, come tutti gli algerini che lasciando il Paese hanno disegnato traiettorie aeree : tracce del movimento e della perdita.

« ces sortes de traces, de résidus, de séquelle de vies fragiles et frêles nous parvenaient donc avant que les oiseaux ne réintegrassent leurs nids enfouis dans les rosiers et les palmiers majestueux. » (p.81)

 

Ma ci sono altri uccelli che si sono piazzati sul tetto di fronte, che non hanno lasciato il campo ed è il loro grido che esprime il dolore del mondo.

« D’autres oiseaux qui n’avaient pas encore réintégré les arbres s’étaient installés sur le toit d’en face. Ils étaient tellement nombreux qu’ils le recouvraient complètement de leurs plumes. Je les imaginais alors que j’en étais à ma sixième vodka, acariâtres, revêches, simulateurs, affectés mais merveilleux quand même! Je croyais alors que ces cris d’oiseaux étaient un peu le raccourci de tous les pleurs »(p.82)

 

Il canto degli uccelli non può non farci pensare alla poesia e di conseguenza alla scrittura, al ruolo morale di denuncia dell’ingiustizia e della sofferenza del mondo che lo scrittore deve assumersi specie quando vive in una situazione “d’urgenza” come quella dell’Algeria negli anni del terrorismo. E’ il ruolo che nella finzione del romanzo ricopre la guida, che non ha paura di scegliere le piste difficili e nega che la sua professione nel deserto possa essere una fuga dal terrorismo perché è iniziata molto prima[164]: una semplice metafora fra il protagonista e la figura dello scrittore in generale o qualcosa di più?

In realtà ci troviamo di fronte ad un inserimento autobiografico che mette l’accento non solo sulla necessità della denuncia del reale ma anche sull’entre-deux linguistico nel quale vive la scrittura magrebina.

L’anno in cui è ambientato il romanzo non coincide infatti con gli anni del terrorismo ma con la scelta dell’autore di scrivere in arabo. Il protagonista  afferma che 25 anni dopo la sua prima esperienza in una fumeria di Costantine « une nuit à Costantine je traine Kamel Rais et Henri Cohen dans une fumerie »(p.67), vuole portare Sarah nella fumeria clandestina di Timimoun. « Vingt-cinq ans plus tard, j’essaie d’emmener Sarah dans une fumerie clandestine de Timimoun. »(p.71). L’episodio di Costantine è iscritto in un momento ben preciso: « Costantine en cette année 1958 s’épanouit »(p.69) e 25 anni dopo fanno svolgere l’azione a Timimoun nel 1983 mentre gli attentati di cui si parla avvengono negli anni novanta, tra i quali quello di data certa contro Tahar Djaout nel 1993. L’autore e la guida hanno la stessa età: se sottraiamo all’anno 1958 dell’episodio di Costantine gli anni dell’adolescenza del protagonista (17) arriviamo al 1941, anno di nascita di Boudjedra per il quale i primi anni 80 coincidono con i primi romanzi scritti in arabo.[165]

Questa discrepanza fra gli anni reali in cui sono avvenuti gli attentati e quello in cui vengono riproposti nella finzione del romanzo condensa la presa di posizione dell’autore verso una libertà del romanzo di rispondere sia alla necessità creativa che a quella della responsabilità sociale. Questo “lapsus” dell’autore fa affiorare la necessità sempre presente dell’impegno diretto della  scrittura che nell’urgenza è capace di atti di coraggio come la scelta di un cambiamento linguistico. Boudjedra è tra gli uccelli del tetto di fronte, di fronte  alla realtà e alla necessità di dirla. Come la  guida, è pronto a far correre qualsiasi rischio alla scrittura pur di farle assolvere un dovere morale, come quello della banalizzazione che affrontato direttamente nella nudità degli stereotipi si fa mezzo per  tradurre il vuoto che spesso caratterizza la realtà. [166]

 

 

 

“Toute l’histoire de la souffrance crie vengeance et appelle récit” afferma il filosofo Paul Ricoeur per sottolineare il ruolo determinante della scrittura per la comprensione della storia presente a cui quella di Rachid Boudjedra non si sottrae.[167]


CONCLUSIONI


La scrittura errante che caratterizza la letteratura magrebina, fonda sull’attraversamento un  luogo di enunciazione preferenziale che testimonia una ricerca lungo traiettorie spaziali che hanno visto nel tempo diversi orientamenti. Lo spazio è per questa letteratura l’oggetto di un costante confronto per definire attraverso un camminare infinito  l’alterità (da quella conflittuale col colonizzatore a quella con l’occidente fino all’altro all’interno del sé)  e l’identità (nazionale, culturale, individuale) al di qua e al di là di un confine reale e simbolico.

In questa prospettiva il deserto è lo spazio emblematico dell’essere traversante della letteratura magrebina, lo spazio non delimitato che si definisce in cammino e che nell’essere percorso si fa  strumento di comprensione delle sue tematiche fondamentali come la ricerca dell’origine e quella  identitaria, la ricerca del luogo e del senso.

Nella rappresentazione del deserto attraverso la scrittura esso è uno spazio di sospensione, ciò che sta tra due termini la cui osservazione rende possibile seguire le dinamiche degli entre-deux dai quali nasce la letteratura magrebina: geografica, linguistica e culturale.

Il Magreb vive in una tensione territoriale che aspira ad un luogo originario senza poterlo far vivere nel presente: il Sud o il paese natale pensato nella lontananza e nell’esilio del nord come occidente (della Francia soprattutto)  o come nord all’interno del territorio nazionale, come spazio cittadino dove, in entrambi i casi, si contrappongono lo spazio della civiltà a quello del “selvatico”, quello della pienezza a quello della perdita.

Questo luogo non posseduto e mancante si traduce nell’erranza che porta all’incontro dell’altro come cultura e come lingua per definire un d’appartenenza.

L’attraversamento come “stato in moto” è dunque la caratteristica dominante della letteratura magrebina e la condizione di percezione e definizione del deserto. La costante riscontrata fra i romanzi di deserto risiede infatti proprio nel movimento concepito in diverse forme, come il viaggio, il cammino o l’erranza, a cui corrisponde un percorcorso di cambiamento dell’io nello spazio desertico che si fa mezzo di acquisizione di tale mutamento e di rappresentazione della visione del mondo. 

L’analisi approfondita di Timimoun di Rachid Boudjedra e di Le désert dans détour di Mohammed Dib ci ha permessso di individuare il funzionamento della dinamica di entre-deux in un confronto basato sull’oscillazione di realismo a partire dal quale si  disegna la visione del mondo.

Il deserto di Timimoun, reso realistico da un preciso percorso spaziale ricco di toponimi e da una scrittura descrittiva, è sempre una rappresentazione della realtà in cui la funzione metaforica se da un lato allontana da essa, dall’altro l’avvicina per farne emergere il significato. La stessa cosa avviene nel romanzo di Dib in cui il deserto, per quanto astratto venga rappresentato, si definisce a partire da un confronto col mondo e con la realtà che sta al di là della rete, al di là dell’io.

Dall’analisi della costante di attraversamento è emerso che la definizione dello spazio avviene tramite ciò che abbiamo definito come “dispositivi di conversione”, ovvero gli spazi liminali di enunciazione, che si fanno operatori tra l’interno e l’esterno. Essi rappresentano lo spazio intermedio come campo di potenzialità in cui si intrecciano i significati dell’io con quelli del mondo esterno. Concretizzati in due oggetti definiti, la rete e il veicolo, in entrambi i romanzi essi simbolizzano anche la condizione della scrittura che per Mohammed Dib nasce dalla contrapposizione che si crea di fronte alla rete, tra immobilità fisica e mobilità dell’immaginazione e per Rachid Boudjedra nella guida del veicolo sulle piste incerte del deserto tra il sé e la sua morte. L’attraversamento del deserto diviene così anche attraversamento della scrittura che nel deserto trova un luogo preferenziale per riflettere su se stessa, per farsi traccia e ricerca delle tracce da decifrare in cammino, all’ambio della perdita e del  ritrovamento che impone continue riletture. La traccia mnemonica o del nome assente, di altre scritture e di altri nomi cancellati costituisce, nel suo essere soggetta alla cancellazione e ombra di una presenza da decifrare, la sorgente del senso della scrittura.

In entrambi i casi la scrittura appare sottoposta al rischio della perdita dei contorni dell’io, dello spazio esterno e della linearità della narrazione, proponendosi come una “pratica” del deserto.

Correndo questo rischio la scrittura di Boudjedra si misura con la realtà che è perdita del senso e caos doloroso, lungo le piste incerte del deserto come lungo le linee del testo assoggettato, come la narrazione, al disordine della memoria attivato all’interno dello spazio liminale di Extravagance.

Nel romanzo di Dib la pratica del deserto corrisponde ad una pratica del vuoto che in un moto circolare annulla, risucchia e restituisce privati di contorni i tentativi di istaurazione del senso costringendo l’immaginazione a farsi creazione continua nello sconfinamento della rete, come in quello del testo.

Il percorso nel deserto, corrispondente al percorso del senso in cui si realizza la ricerca interna dei due romanzi, è resa possibile da questo procedere anomalo, non lineare, distaccato da una concatenazione temporale coerente, fatto di trébuchements, di pauses, di défauts de memoire, insabbiamenti, sconfinamenti e deviazioni dal tracciato. Esso è indispensabile nell’immensità spazio-temporale del deserto in cui il presente è sospeso in un entre-deux temporale per il protagonista di Timimoun e risucchiato in un tempo mitico ed onirico per le voci de Le désert sans détour. Un tale incedere ha in sé la potenzialità dell’apertura, del passaggio per i centri di senso costituiti in un caso dall’immaginazione e nell’altro dalla memoria.

Il processo di perdita mette in atto il denudamento di una codificazione aprioristica del deserto a favore di una sua definizione attraverso l’io che si manifesta in un processo di proiezione e di identificazione col paesaggio. L’io, senza argini che lo tengano unito del romanzo di Dib e corpo svuotato e disseccato del romanzo di Boudjedra, nella  ricerca di una definizione si va a sovrapporre ad uno spazio desertico che è la negazione della localizzazione, del concetto bachelardiano di « certitude de fixation ».

In questo spostamento in cui avviene la metaforizzazione del deserto esso diviene  « lieu où il n’y a lieu que de soulever de questions » (LDSD, p.116), uno spazio che allarga all’infinito la domanda circa l’origine iscritta in un luogo definito, e « lieu où se chamboule et se fracasse le monde » (T, p.113) spazio del caos del deserto pietroso che invade l’armonia dell’oasi immersa nel grido di dolore del mondo. Lo spazio desertico si fa non-luogo dell’anima errante in cui ha luogo la calcificazione e lo scompiglio del mondo.

L’io che in tale spazio corre il rischio di perdersi scopre che è solo dopo aver fatto nel vuoto il proprio nido ed essere passato attraverso la dissoluzione che potrà riconoscersi in un nuovo io. Un io non definitivo, multiplo e in gestazione continua come il deserto e come la scrittura che trova nel movimento e nella perplessità le sue forze rigeneranti e propositive. L’io ricostituito in nuova forma può affrontare la realtà, rappresentata nello spazio astratto e in quello  concreto. Ed è lungo l’entre-deux linguistico che le proposte affiorano trasformando il male supremo della divisione del linguaggio e della violenza interna allo stesso popolo, in uno sforzo creativo per combatterlo.  Dal concetto di divisione del linguaggio nasce la ricerca continua sulla parola di Dib che nel suo potere creativo si oppone alla perdita del senso messa in atto dal male e, parallelamente, dietro alla realtà degli attentati, la scelta della lingua madre si impone come atto di coraggio nella situazione di urgenza del reale che traduce l’impegno diretto e la moralità attiva di una scrittura indispensabile per la comprensione del reale.

Se immaginiamo la letteratura magrebina come un insieme ritmico, le scritture di Rachid Boudjedra e di Mohammed Dib, così diverse nel dire il reale attraverso il deserto, nel loro entre-deux realistico e immaginario che riconosce un valore cognitivo alla memoria e al sogno, ne rappresentano l’accento forte e l’accento debole, quello sul silenzio del battito teso verso l’ascolto dell’indicibile e quello sul manifestarsi del battito nella concretezza dell’onda e della sua percezione sonora.


BIBLIOGRAFIA


 



[1] Mohammed Dib, Le désert sans détour, Sindbad, Parigi, 1992, pag. 116

[2] Ibidem, pag. 72

[3] Sia in francese che in italiano il primo significato del termine indica disabitato, abbandonato, vuoto o privo di: uomini, acqua e vegetazione. In arabo la terminologia relativa al deserto è molto ricca e differenziata. La parola più conosciuta è sahrâ, da cui proviene il nome proprio Sahara, eletto dagli occidentali a designare le pianure desertiche dalla costa dell’ovest africano fino ai territori egiziani e sudanesi. Sahrâ ha la stessa radice del verbo sahira che significa “essere di colore fulvo” ed indica anche una vasta pianura desertica. Altri termini poi indicano la mancanza d’acqua come mawmât e fayfâ e numerosi sono quelli che si riferiscono alle caratteristiche pericolose e  spaventose del deserto: balqaca è il paese incolto e inabitato; majhal è il deserto senza guida; baydâ e matlaf sono deserti di rovina e perdizione. Falât è il deserto che percorre il viaggiatore, shawl è la vasta terra deserta, tît o ard tayhâ il paese in cui ci si perde.

[4] Il concetto di “entre-deux” nasce per definire la zona intermedia delle situazioni di ambiguità, come lo smarrimento identitario, culturale e linguistico a cui fanno spesso riferimento le opere di antropologi, etnologi, etnopsichiatri, soprattutto dopo il fenomeno dell’immigrazione dai paesi ex colonie francesi. E’ d’obbligo fare riferimento al pensiero di Daniel Sibony che per primo ha messo a fuoco il concetto in ambito psicologico in cui l’entre-deux viene definito come “un operatore prezioso ed efficace per abordare  fenomeni variegati” ed in cui incentra il significato del doppio termine sull’aspetto dinamico e intrinseco all’identità come processo e al rapporto con l’origine. Il nostro testo di riferimento sono gli atti di un convegno tenutosi a Rabat sull’entre-deux che riunisce interventi provenienti da diverse aree culturali. Nord-Sud: une altérité questionnée, coordinateur François Devalière, L’Harmattan, Parigi, 1997.

[5] Geneviève Mouillaud-Fraisse, Les fous cartographes. Littérature et appartenence, Parigi, L’Harmattan,  1995, pag.26.

[6] Jacques Madelaine, L’erranza e l’itinerario. Lettura del romanzo magrebino contemporaneo, Genova, Marietti, 1990, pag. VIII. Il rapporto con la lingua francese ha conosciuto momenti molto diversi nella storia della letteratura magrebina e ha visto schieramenti e posizioni critiche differenti. La politica di assimilazione della dominazione francese in Algeria impose il francese sull’arabo classico e parlato e sul berbero. I primi romanzi usavano il francese come strumento di sovversione attraverso un “dinamitaggio sistematico” della lingua colonizzatrice. L’uso del  francese permetteva d’altra parte un certo distacco per descrivere la situazione del proprio paese e soprattutto definiva la scelta del destinatario in modo inequivocabile. E’ da tenere in considerazione anche il fatto che molti autori si esprimono più a loro agio in francese che in arabo classico e nel caso degli scrittori berberi, lo preferiscono come scelta politica per il mancato riconoscimento della loro lingua materna. Col tempo la scelta della lingua sembra essere uscita da una problematica ideologica ed essere una personale questione dell’autore che in molti casi la considera un puro strumento di comunicazione ed un mezzo efficace per aprire le porte del mondo e trasmettere la propria visione. E’ innegabile che in Algeria il problema linguistico resta il centro di condensazione di importanti questioni politiche, quale proprio in questo periodo il riconoscimento della cultura berbera soffocata da quella arabo-islamica.

[7] Rosalia Bivona, La clessidra della scrittura. Spazio e tempo ne L’invention du désert di Tahar Djaout, Napoli, E.Di.S.U., Istituto Universitario Orientale, Dipartimento di Studi e Ricerche su Africa e Paesi Arabi, 2000, pag. 61.

[8] Jacques Noiray, Littératures francophones, I. Le Maghreb, Belin, Parigi, 1996, pagg 123-136. Vedi anche Charles Bonn, “L’exil fécond des romanciers algeriens” in Exil et Littérature, Grenoble, Ellug, 1986, pp. 69-79.

[9]  “Insisto en esta tercera dimensión de la literatura, la subjetividad coletiva, porque a menudo es la menos perceptible y sin embargo es la más dinámica: la punta donde nuestra subjetividad porta, encarna, nuestra coletividad, es decir, nuestra cultura” Carlos Fuentes, Geografia de la novela, Madrid, Alfaguara, 1993, pag. 22.

[10] Charles Bonn, “La traversée, arcane du roman maghrébin?” In Visions du Maghreb, Edisud, Aix-en-Provence, 1985, pp 57-61.

[11] “Ombre en occident, quand celui qui la projette se trouve en orient”. M. Dib, op. cit pag 13.

[12] Jean-Robert Henry, Le désert nécessaire, “Autrement”, n°5, 1983, pag. 17.

[13] Michel Roux, Le désert de sable, Parigi, L’Harmattan, 1995, pag. 177.

[14]   Brunet R., Ferras R., Thery H., “Paysage”, Les mots de la géographie, Paris, Reclus- La documentation française, 1993.

[15] J.-R.Henry, op. cit, p.17.

[16] Paris, Grasset, 1997.

[17] M. Roux, op. cit. pag. 167. Vedi anche J-R. Henry, “Romans sahariens et imaginaire français” in Enjeux Sahariens, a cura di P.R. Baudel, Paris, CNRS, 1984.

[18] Quest’idea è alla base del pensiero di G. Bachelard e si ritrova quindi in diverse sue opere. Citiamo qui La Terra e le forze, Como, Red, 1989, pagg. 23-35.

[19] Lo stretto rapporto tra deserto e parola trova conferma nella radice comune che i due termini hanno in ebraico, davar: parola e midbar: deserto.(per questa terminologia cfr M.M. Davy, Le désert intérieur, Parigi, Albin Michel, 1983, pag.100).

[20] “Le visioni polimorfe degli occhi e dell’anima contenute in righe uniformi di caratteri minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi; pagine di segni allineati fitti fitti come granelli di sabbia rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo in una superficie sempre uguale e sempre diversa, come le dune spinte dal vento del deserto.” Italo Calvino, “Lezioni Americane” in Saggi, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pag. 714.

[21] Ci riferiamo a Jurij M. Lotman, La Semiosfera, Venezia, Marsilio, 1985.

[22] Il biologo Vernadskij concepisce l’umanità come una potente forza biologica da considerare nella sua totalità. Il concetto di biosfera non può non prendere in considerazione tale forza che porta a ridefinire la biosfera  come noosfera: “questo nuovo stato della biosfera è la noosfera, un nuovo fenomeno geologico sul nostro pianeta. Nella noosfera il ruolo geologico dell’uomo è fondamentale. In queste nuove condizioni la forza geologica fondamentale dell’umanità si costituisce attraverso la crescita di quelle parti delle discipline umanistiche che sono legate alle scienze che si occupano della natura, alla matematica, alle scienze tecniche”. Cit. in Jurij M. Lotman, op. cit., pag. 77. 

[23] Ibidem.

[24]  Un espace géographique est un système, c’est à dire un ensemble d’éléments en interactions dynamiques. Ce système met en jeu des sous-systèmes complexes: le climat, les paléo-climats, la tectonique des plaques, les processus d’érosion, etc. qui interagissent et produisent des formes, que l’on peut apprécier par le regard: les paysages ou forme paysagère. On entendra par forme paysagère un objet géographique homogène produit par des sous-systèmes et dont les dimensions sont telles qu’il remplisse une partie du champ visuel, comme un reg, une falaise, un erg, etc. une forme paysagère est composée d’objets plus petits, les éléments paysagers, comme des blocs rocheux sur une hamada, une petite dune dans un erg, des dreikanters sur un reg. Les sous-systèmes qui lui ont donné naissance sont ses structures. Michel Roux, Le désert de sable, L’Harmattan, 1995, pag.167

[25] Rachid Boudjedra, Timimoun, Paris, Denoel, Coll. Folio, 1994, pag. 50-51.

[26] Michael Issacharoff, Qu’est-ce que l’espace littéraire? In “L’information littéraire”, Paris, maggio-giugno, 1978, n°3 pagg.117-122.

[27] Rudolf Arnheim, Visual Thinking, London, Faber & Faber, 1970, pag. 249

[28] Carlos Fuentes, Geografia de la novela, Madrid, Alfaguara, 1993, pag. 22.

 

[29] Ibidem, pag. 26.

[30] A. Meddeb, Tous les déserts du monde, “ Dedale”, Déserts,  n° 7-8, printemps 1998

[31] “Cette forme essentielle sur laquelle se fonde notre imaginaire: l’espace. Un espace que nous ne concevons guère, malgré quelques tentative récentes, qu’à titre décoratif, comme un élement rapporté au discours et trop communément réduit à une description, une dé-scription: une négation de l’écriture.” Eric Lysoe, “Brûler Bleston?”, in Imaginaire de l’espace, espaces inaginaires. Sous la direction de Kacem Basfao, Casablanca, EPRI,1988, pag. 41.

[32] Jean-Robert Henry, op.cit, pag 18. Studioso della letteratura francese del periodo coloniale e autore di alcune opere ed articoli che delineano l’influenza del deserto sull’immaginario francese.

[33] Per la terminologia vedi Albert de Pury «L’image du désert dans l’ancien testament» in Le désert. Image et réalité, Ginevra, Les Cahiers du Cepoa, n.3, 1989.

[34] “Lors de la création, la terre est comparable à un désert. Tout est sec: il n’y a ni pluie, ni rosée, ni champ, ni verdure, ni artiste pour la cultiver” M.M. Davy, op.cit., pag. 100.

[35]“Nel principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era deserta e disadorna e v’era tenebra sulla superficie dell’oceano e lo spirito di Dio era sulla superficie delle acque. Dio allora ordinò: “Vi sia luce”. E vi fu luce. E Dio vide che quella luce era buona e separò la luce dalla tenebra. (…) Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E Dio chiamò il firmamento cielo. (…) E Dio ordinò: “le acque che sono sotto il cielo si accumulino in una sola massa ed appaia l’asciutto”. E avvenne così. Dio chiamò l’asciutto terra e alla massa delle acque diede il nome di mari. E Dio vide che questo era buono.”Genesi, 1,1

 

[36] Dio disse ad Abramo: “Non dispiaccia agli occhi tuoi per riguardo al fanciullo e alla tua serva; ascolta la voce di Sara in tutto quanto ti dice, perché è attraverso Isacco che sarà nominata la tua discendenza.

Ma io farò diventare una grande nazione anche il figlio della serva, perché è tua discendenza”. Allora Abramo si levò di mattina presto, prese pane, un otre di acqua e li diede ad Agar, la quale mise tutto sopra le sue spalle; le consegnò pure il ragazzo e la cacciò via. Essa partì, sviandosi per il deserto di Bersabea, finché fu esaurita l’acqua dell’otre. (…) Dio udì la voce del ragazzo ed un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: “ Che hai tu, Agar? Non temere perché Dio ha ascoltato la voce del ragazzo. (…) Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d’acqua. Dio fu con il ragazzo che crebbe, abitò nel deserto e divenne un arciere. Egli abitò nel deserto di Paran e sua madre gli prese una moglie del paese d’Egitto.  Genesi, 21,12.

[37] Tabari, Dalla creazione a David, citato in Dagron e Kacimi, Naissance du désert,  Parigi, Balland, 1992.

[38] “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti mostrerò” Gn, 12,1

[39]Geremia 2,2

[40] Nel fertile giardino dell’oasi di Timimoun sovrasta il grido di dolore del mondo fondamentalmente infelice. Anche l’oasi dipinta nell’articolo del protagonista de La traversée di M.Mammeri è il luogo in cui l’ideale naufraga nel benessere.

[41] Numeri 14,30

[42] L’aspetto sacro dell’immaginazione viene ripreso dalla modalità di scrittura di Dib nel romanzo analizzato che si ricollega anche alla tradizione islamica. (cfr cap.4§2)

[43]Dagron e Kacimi, op. cit, pag. 182.

[44] Analizzando il deserto nella cultura ebraica, Armand Abécassis mette in luce la doppia vocazione di Adamo, che è da un lato quella di conquistare la terra, e dall’altro quella di  lavorare se stesso come se fosse un “Adamah”, ovvero una terra da coltivare. Armand Abécassis, “L’Expérience du désert dans la mentalité hébrahique”in Le désert et la queste, Cahiers de l’Université Saint-Jean de Jérusalem, n°8, Parigi, Berg International, pag.34

[45] Dagron e Kacimi, op. cit pag. 183

[46] Quest’idea la ritroviamo nel romanzo Le désert sans détour di Mohamed Dib nell’immagine del cammino che si dipana su un albero rovesciato. La conoscenza dopo la mela del peccato originale, si può cogliere solo nella direzione orizzontale che tutte le strade intraprese intrecciano a formare un albero. Une route est un arbre qui pousse couché. Où que vous vous trouviez, vous êtes sur l’arbre. (p. 55)

[47] Cfr. cap.4§1.

[48] Per questa nomenclatura vedi: André Miquel, Le désert dans la poésie arabe preislamique: La Muhallaqa de Labid in  « Cahiers de Tunisie », 1975, 23, p.191-211.

[49]Ibid., vv 8-10, pag. 206.

[50] “les atlal: tu ne connais pas?

Non Monsieur, j’avoue mon ignorance.

C’est justement ce que nous allons tenter de déchiffrer.(…)

Et finalement, c’est quoi?

Finalement on ne sait pas trop. Il faut se contenter d’à-peu-près comme: traces de campements abandonnés, signes d’une écriture mystérieuse. (…) Ce sont des campements du vouloir dire, haltes du sens. Tatouages aussi comme au front des femmes. M. Dib, op. cit, pag.85-86.

 

[51] Erodoto, Enquête, IV, 18, cit. in Dagron e Kacimi, op. cit, pag. 57

[52] « A dix jours des Garamantes on rencontre une autre oasis habitée par les Atarantes. C’est le seul peuple que je connaisse où personne n’ait de nom individuel. (…) le mont Atlas a donné son nom aux gens qui habitent dans son voisinage, et qu’on apelle Atlantes. Ils ne mangent aucune créature vivante et ne font jamais de rêves ». Ibidem, pag. 69

[53] “Là le sable s’étirait jusqu’à l’infini: terre où rien ne rampait, ciel où rien ne volait (…) la douleur les saisit au spectacle de ce ciel et du dos de cette terre aussi vaste que le ciel, qui, jusqu’au loin, se déployaient sans répit. A perte de vue, aucun poin d’eau, aucun chemin, aucun refuge de bergers. Effrayés, ils se demandaient l’un l’autre : “quelle terre cette terre prétend-elle être?” Apollonio di Rodi, Les Argonautes, IV,  1232-1258 cit. in Dagron e Kacimi, ibidem,  pag 73.

 

[54] La ritroviamo in termini negativi  in Timimoun in cui il protagonista vede con terrore l’inumanità della violenza terroristica nel caos del deserto pietroso, dal quale prende però la forza e il moto per scavare e ricostituire il proprio io. “Ici se fixe la sauvagerie du monde et sa prodigeuse capacité à exalter tous ces aventuriers qui acceptent d’aller avec moi, jusqu’au bout d’eux-memês, dans la peur et la terreur ». (T. p.114).

[55] “Pour les nombreux chrétiens qui choisirent de vivre au désert  à titre individuel ou optèrent pour la vie contemplative, il convient de parler de la fuite du monde (fuga mundi). (…) Fuir ne veut pas dire rompre, si la fuite est intériorisée, c’est vivre à un autre diapason en récusant l’avoir, les désirs, les soucis liés aux événements.” M.M. Davy op. cit  pag 112.

[56] Jean Brun  « Les deux déserts », in Le désert et la quêste, Cahiers de l’Université Saint Jean de Jérusalem n° 8, Paris, Berg International, 1982. Pag. 151

[57] Andrée Chedid, Les marches de sable, Parigi, J’ai lu, 1981, pag. 56. In T. la situazione è rovesciata. Il protagonista nel deserto deve fuggire le degenerazioni terroristiche della religione e per questo ha un atteggiamento critico anche nei confronti degli eremiti e delle cattedrali nel deserto,“impostante et dérisoire” quella di Foucault a El-Goléa vista come civiltà imposta che  invade lo spazio selvatico. (T.p.123) 

[58] Saint Athanase, Vie et conduite de notre Père saint Antoine, trad. P. Benoît Lavaud, Abbaye de Bellefontaine, 1979, coll. Spiritualité orientale, n°38, p.26.

[59]Il loro pensiero e le esperienze nel deserto sono narrati negli Apophtegma Patrum (Sentenze dei Padri del Deserto) che hanno trovato larga diffusione in tutto il Medio Evo. Una delle migliori versioni in francese, consigliata da M.M. Davy, è quella di Jean-Claude Guy, Les Apophtegmes des Pères du désert, Textes de spiritualité orientale, n° 1, Abbaye de Bellefontaine, 1968.

[60] Citato in Jean-Robert Henry, op. cit, pag.20

[61] Roger Mathé, L’exotisme, cit. in Ilhem Saida, Mysticisme et désert à partir d’exemples dans la littérature française et la littérature maghébine de langue française. Thèse de doctorat en Recherches sur l’imaginaire, Université Grenoble III, 1994, pag. 306.

[62] J-R Henry, op. cit, pag. 20

[63] E. Psichari, Le voyage du centurion, Paris, Luis Conard, 1986, pag.12.

[64] Ilhem Saida, op.cit, p 249.

[65] « Parmi les dix mots que Camus donne pour ses péférés, si on elimine les termes trop abstraits ou trop vagues, restent cinq mots qui tous pourraient nous conduire à l’image primordiale: la terre, la mère, le désert, l’été, la mer. Si nous voulons un fil conducteur solide et souple, il nous faut une image moins consciente que la mer et la mère, plus précise que la terre, plus large que l’été. Une image qui renvoie à un centre et à une circonference, une image partut présente, sous diverses figures, dans différents contextes. Un thème qui explique l’imagination de la matière et celle des formes, qui rejoigne les personnages et l’écriture, la sensibilité et les idées, l’observation et les rêves: le désert ». Laurent Mailhot, Albert Camus ou l’imagination du désert, Montréal, Presse de l’Université de Montréal, 1973, pag. 10.

[66] Albert Camus, Noces, Théatre, récits, nouvelles, a cura di Roger Quilliot, Paris, Gallimard, “Bibliothèque de la Pléiade”, 1965, pag. 62.

[67] E.Showalter,Exiles and Strangers,Columbus,Ohio State University Press,1984,pag.30.

[68] L’eroe sahariano che muore al suo mondo d’origine occidentale, manifesta una rottura con esso  e al tempo stesso va ad alimentare con la sua fuga nel deserto un’immagine di questo a  misura di un bisogno tutto occidentale. Il paradosso dei conquistatori del Sahara nel nome della civiltà è che sono soggetti che fuggono quella stessa civiltà, il paradosso di una contro-cultura che attira coloro che si oppongono alla cultura di provenienza

[69] Parigi, Arts et Métiers graphiques, 1960.

[70] B. Pierre, Le pétrole français, Paris, Hachette, 1960.

[71] Ebraica, francese, araba, berbera, nomade.

[72] M. Haddad, Je t’offrirai une gazelle, Paris, Maspero, 1978, pag. 91.

[73] Ibidem, pag. 91.

[74] Cfr M. Barbier, “Essai d’interprétation du conflit saharien”, Enjeux Sahariens, Paris, CNRS, 1984, pagg. 213-229.

[75] « Il nomade, lo spazio nomade è localizzato non delimitato. » G. Deleuze-Guattari, Nomadologia. Pensieri per il mondo che verrà, Roma, Castelvecchi, 1996, pag. 53.

[76] Parigi, Plon, 1982.

[77] Paris, Grasset, 1997.

[78] Ibidem, pag. 321.

[79] Ibidem, pag. 104.

[80] Nato nella Cabilia marittima nel 1953, si è laureato in matematica nel 1977 ad Algeri ed ha poi proseguito gli studi in Francia. Ha iniziato la carriera giornalistica nel 1974 per El Moudjahed e successivamente per Algérie-Actualité, di cui è stato responsabile della rubrica culturale nel 1983-84 ed è redattore di El Watan. E’ questo un periodo di attività frenetica in cui vengono alla luce romanzi, raccolte di poesie e di racconti: L’Exproprié, Algeri, SNED, 1981, L’Oiseau minéral, Sigean, L’Orycte, 1982; L’Etreinte du Sablier, Oran, CRIDSSH, 1983; Les chercheurs d’os, Paris, Seuil, 1984; Les mots migrateurs, Algeri, OPU, 1984; Les rets de l’oiseleur, Algeri, ENAL, 1984; Les vigiles, Parigi/Algeri, Le Seuil/Bouchène, 1991. Nel 1993 fonda insieme ad un gruppo di amici il settimanale culturale Ruptures e cinque mesi dopo viene assassinato dal terrorismo islamico.

[81] Tahar Djaout, L’invention du désert, Paris, Le Seuil, 1984, pag. 13.

[82] Ibidem, pag. 27.

[83] Ibidem, pag. 62.

[84] Ibidem, pag. 134.

[85] R. Bivona, La clessidra della scrittura. Spazio e tempo ne L’invention du désert di Tahar Djaout, E.Di.S.U. Napoli 2, Istituto Universitario Orientale, Dipartimento di Studi e Ricerche su Africa e Paesi Arabi, Napoli, 2000, pag. 28.

[86] Scrittore tunisino di religione ebraica, autore di Agar, Paris, Bouchetet Chastel, 1963; La statue de Sel, Paris, Gallimard, 1966; Le Scorpion, Paris, Gallimard, 1969, Le Désert, Paris, Gallimard, 1977.

[87] Guy Dugas, “Le désert, une appropriation ludique de l’Histoire”, La littérature judéo-maghrébine d’expression française, pag. 187.

[88] Op. Cit., pag. 4.

[89] Paris, Le Seuil, 1981.

[90]Ibidem, pag.234.

[91] A. Meddeb è nato a Tunisi nel 1946, ha insegnato alla Scuola di Belle Arti di Parigi ed è stato molto apprezzato non solo per i suoi romanzi Talismano e Phantasia ma anche per i testi poetici di ispirazione mistica come Les dits des Bistami, Tombeau d’Ibn Arabi e Récit de l’exil occidental.

[92] A. Meddeb, Talismano, Paris, Sindbad, 1986, pag. 266.

[93] “Gilbert Durand l’a fait remarquer, l’image obsédante a tout un trajet anthropologique à parcourir avant d’atteindre le statut de mythe. Il énonce  le postulat de base que une image obsédante, un symbole moyen, pour être non seulement intégré à une oeuvre, mais encore pour être intégrant, moteur d’intégration et d’organisation de l’ensemble d’une oeuvre, doit s’ancrer dans un fond anthropologique plus profond que l’aventure personnelle enregistré dans les stades de l’inconscient biografique de l’ auteur.” Kangni Alemdjrodo, Rachid Boudjedra, la passion de l’intertexte, Bordeaux, Presses Universitaires de Bordeaux, 2001, pag.10.

[94] Charles Bonn, Le roman algérien de langue française, Paris, L’Harmattan, 1989, p.115-116.

[95] A questa generazione appartengono gli scrittori nati attorno al 1920 che hanno pubblicato le prime opere dal fortissimo impatto sul pubblico tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ‘50: Ahmed Sefrioui, Driss Chraibi in Marocco del quale ricordiamo Le passé simple del ‘54, Albert Memmi in Tunisia che ha pubblicato nel 1953 La statue de sel, mentre in Algeria a fianco di Dib Mouloud Feraoun scrive altre opere fondamentali come Le fils du pauvre del 1950 per scomparire prematuramente assassinato dall’O.A.S., a Algeri, nel  1962; di pochi anni più giovane, Kateb Yacine è l’autore di un romanzo fondamentale: Nedjma del 1956.

[96] La definizione è di C. Bonn. Si tratta della generazione di Kateb Yacine (Algeria) e Mohammed Khair-Eddine (Marocco) e degli scrittori riuniti attorno alla rivista Souffles (T. Ben Jelloun, Nabil Farès, Khatibi, Bourboune) fondata nel 1966 e diretta, fino al suo arresto, da Abdellatif Lâabi, tutti accomunati da una scrittura iconoclasta e sovversiva nella forma. C. Bonn, “La fin des enfants terribles”, Paysageses littéraires algériens des années 90: témoigner d’une tragédie? A cura di C. Bonn e F. Boualit, pag. 8.

[97] La grande Maison è stata ripubblicata nel 1996 e degli estratti sono presenti in tuti i manuali letterari algerini e francesi.    

[98] François Desplanques, L’Incendie de M. Dib. Extraits de textes. Alger, I.P.N., 1972, pag. 9; Jean Déjeux, Mohammed Dib, écrivain algérien. Sherbrooke, Naaman, 1977, pag. 13-26; Jacqueline Arnaud, Recherches sur la littérature maghrébine de langue française. Le cas de Kateb Yacine. Paris, L’Harmattan, 1982, pag.167.

[99] A Le désert sans détour seguono : L’infante maure del 1994, i racconti riuniti ne La nuit sauvage del 1995 e una raccolta di poesie del 1996 intitolata L’aube Ismael.

[100] « La lecture pratiquée ici se veut plurielle. C’est à dire qu’elle s’interdit d’abord de réduire le foisonnement du texte à l’unicité d’une signification. (…) elle ne se réclame d’aucun dogme critique dont il suffirait d’appliquer mécaniquement les grilles de déchiffrement au texte littéraire. » C.Bonn, Lecture présente de Mohammed Dib. Alger, ENAL, 1988, pag. 3.

[101] Ibidem, pag. 32.

[102] Intervista a Mohammed Dib in Les Lettres Françaises, 7 febbraio 1963.

[103] “Quelqu’impérieuse que soit la réalité qu’il (Dib) nomme, l’essentiel pour lui n’est point tant cette réalité, que la réponse fournie par l’écriture, et les écritures, à son défi.” C.Bonn, op. cit,  pag.11 (introduzione)

[104] Ibidem, pag. 12 (cap. 1)

[105] La steppa si configura come negazione della vita, come suo inverso infernale. In Maître de Chasse i personaggi lasciano lo spazio urbano ed eleggono la steppa come luogo in cui condurre la lore personale quête.

[106]  Beida Chikhi, Problematiques de l’écriture dans l’oeuvre romanesque de M.Dib, Algeri, O.P.U., 1989, pag. 208

[107] M. Mathieu esita a definirlo tale, ma il dubbio è risolto dall’editore che sotto al titolo ha inserito la dicitura roman. In .Mohammed Dib: errances et pélerinages, « Itinéraires et Contacts de Cultures », vol. 21-22, 1995, pag. 103.

[108] “Cette veille indéfectible” pag. 90.

[109] Si tratta di una pubblicazione del 1965 delle Edizioni Nazionali di Algeri e illustrata dal pittore – già allora conosciuto- Mohamed Khadda, che sarà censurata.Viene pubblicata sempre a Algeri nel 1966 da SNED. La  seconda versione, Greffe, uscirà nel 1984 presso Denoël, tradotta anche in arabo.

[110] Riedita da Denoel, coll. Relire nel 1976 e nel 1980 e da Gallimard coll. Folio nel 1981, 85.

[111] Riedita nel 1979 dallo stesso Denoel.

[112] Una versione illustrata da Wolinski viene pubblicata da Denoel nel  1982.

[113] Riedito da Gallimard coll. Folio nel 1995. Successivi a Timimoun sono : Lettres algériennes, Paris, Grasset, 1995; Mines de rien (opera teatrale) Paris, Denoel, 1995; La vie à l’endroit, Paris, Grasset, 1997.

[114] Kangni Alemdjrodo, Rachid Boudjedra, la passion de l’intertexte, Bordeaux, Presses Universitaires de Bordeaux, 2001, pag.10

[115] Afifa Berheri, « La littérature maghrébine de langue française », Ouvrage collectif, sous la direction de C.Bonn, N.Kaddha e A.Mdarhri-Alaoui, Paris, Edicef-Aupelf, 1996.

[116] K. Alemdjrodo, op. cit., p.57.

[117] Un esempio concreto nella sua opera di queste riflessioni è la costruzione di un discorso attorno alla sessualità occultata dalla cultura arabo-musulmana, un tabù che Boudjedra utilizza come strumento di rivolta ma anche come mezzo per restituire e reinvestire del passato questo campo culturale e ideologico. Egli afferma nel libro-intervista con Hafid Gafaiti, che il corpo è il grande assente dalla letteratura araba moderna sia magrebina che medio-orientale mentre non era così nella letteratura dell’età d’oro islamica che ha regalato testi come Le Mille e una Notte (che lo scrittore qualifica come il testo più erotico dell’umanità, pag. 108 OP. CIT) o alla scrittura come gesto erotico nel pensiero di Ibn Arabi.

Il sesso, egli afferma, si fa portavoce nella sua opera del “complesso edipico irrisolto nella mentalità andocentrica magrebina” e si ricollega in questo  all’altra figura ossessiva, quella dell’autorità.

La lotta con l’immagine paterna repressiva coincide con la possibilità o meno di accedere all’unità dell'essere per l’affermazione di una nuova identità. Una condizione che i personaggi dei suoi romanzi non riescono a raggiungere perchè la tirannia familiale rappresenta solo una piccola parte dell’oggetto da combattere. La tirannia familiare  è infatti la trasposizione della ben più potente tirannia politica.

La repressione sessuale si fa quindi immagine della repressione politica e la sua denuncia si universalizza contro la repressione tout court.

 

[118] « Je fais dix ans de plus que mon âge. Obsédé par la vodka, ivrogne invétéré, ex-pilote de chasse renvoyé de l’armée de l’air, ex-fils d’un magnat de la tomate en conserve, déshérité par mon féodal de père, ex-élève du lycée Duverrier de Costantine. Déjà, à seize ans, j’avais ce même visage, cette petite tête, ce grand corps démesuré, interminable et difficile à caser quelque part. Frileux. Moite. Poisseux. Maigre. Inénarrable. Foutu à quarante ans. R. Boudjedra » pag. 37.

[119] Sotto questo aspetto Boudjedra è stato accomunto a L.-F. Céline, uno dei suoi scrittori preferiti, per la portata immediata  di confidenza e confessione che il monologo dà e che permette al lettore di “appropriarsi” dell’io narrante. “Les romans de Céline et Boudjedra, sur le plan formel, sont composés de telle manière qu’ils permettent à chaque lecteur de s’approprier, d’incarner le je qui se donne à lire comme un confidence, un aveu, l’expression d’une révolte”. Kangni Alemdjrodo, op. cit., pag. 72.

[120]«Il [le désert] n’est pas un simple cadre spatial pour une intrigue amoureuse quelconque, mais un véritable catalyseur du discours » Rym Kheriji, “Renouvellement ou continuité de l’écriture de Rachid Boudjedra? Lecture de Timimoun”. Paysages littéraires algériens des années 90: témoigner d’une tragédie?, a cura di Charles Bonn e Farida Boualit, Parigi, L’Harmattan, 1999, pag. 91.

[121] I protagonisti de La répudiation si chiamano Rachid e Céline.

[122] Con il concetto di luogo dell’enunciazione intendiamo sia lo spazio enunciativo nel senso di Bienveniste da cui il soggetto narrante dice io,  e ne permette un’identificazione nella sua dimensione concreta,  sia nel senso di dispositivo enunciativo che permette di analizzare come avviene la formulazione dell’io nello spazio per scorgerne la dimensione simbolica, di grande importanza per una definizione del senso del deserto e delle sue influenze su tale enunciazione.

[123] Si tratta di un car di cui non vengono precisate le dimensioni. Potrebbe trattarsi di una corriera, resa improbabile dalla marca Land Rover che non ne ha mai fabbricate e dall’immagine di copertina che riproduce un fuori strada.

[124] Questo episodio viene ripetuto più volte nel corso del romanzo. (pp.13,88).

[125] Il verbo extravaguer usato con questo significato ricorda un verso di “A une passante” di C.Baudelaire: Moi, je buvais, crispé comme un extravagant. C.Baudelaire, Les Fleurs du mal, Milano, Mursia, 1974, pag.218.

[126] Extravagance n’est pas un car comme les autres. De l’extérieur c’est un vieux tacot comique. De l’intérieur c’est un bolide surdoué et impressionnant. (p.39)

[127] Le car donne l’impression de filtrer à travers les phénomènes abstraits et les éléments minéraux qui portent la calcination du monde à la démesure. (p.17).

 

[128] Ahmed Mahfoud individua nel motivo dello specchio il segno distintivo che definisce T come romanzo psicologico. La sua interpretazione parte dal presupposto della soggettività melanconica del narratore che influenza tutto l’ordine del romanzo. “Or, comme le moi mélancolique introjecte l’objet perdu et qu’il l’identifie à son moi idéal, la haine de l’être aimé sur lequel a été transférée l’affection liée à la perte originelle, se résoud en haine, c’est à dire en pulsion  destructrice, visant son propre moi. C’est ainsi que le miroir renvoie au narrateur une image chiffonée, pitoyable et répugnante de lui-même. (…) En reniant son moi, il se retrouve directement en face de son surmoi: c’est pour cela qu’en se regardant dans le rétroviseur, métaphore d’un miroir défaillant, il tombe, non sur son image, mais sur celle de Sarah, son juge, son istance surmoïque qui figure essentiellement par son regard.” Mahfoudh Ahmed, “Mélancolie, désordre de la mémoire et nouvel ordre du récit dans Timimoun de Rachid Boudjedra” in Istitut des Belles lettres arabes, n°177, 1996, pag. 277. Ci sembra però che l’importanza di Sarah riesieda più nella sua funzionalità narrativa di referente e nel suo valore simbolico di alterità con la quale confrontarsi e dalla quale il protagonista riesce a svelare la propria.

 

[129] “La voie littéraire expose le paradoxe sans l’expliquer. Elle l’expose comme paradoxe. Elle joue le jeu du “double bind” [double contrainte] et en même temps le déjoue sur un point précis: la possibilité de penser qu’il y a là quelque chose d’impensable”. Mouillaud-Fraisse Geneviève, “Littérature et paradoxe”, Les fous cartographes. Littératures et appartenance. Parigi, L’Harmattan, 1995, p. 82.

 

[130] Cfr. §1.1.3

[131] E. Cassiser, Filosofia delle forme simboliche/2, Firenze,La Nuova Italia, 1988, p.153.

[132] Hafid Gafaiti, Boudjedra ou la passion de la modernité, Paris, Denoel, 1987, pag. 113.

[133]La stessa idea la ritroviamo a p.62 : «Le soleil couchant, durant ces jours polaires, semble un lambeau ovale, rouge et livide, à la fois, flamboyant et terne, brouillé et distendu. Il se plaque sur la succession de ksour aux formes étranges; de falaises rouges qui dominent des chotts, maintenant, bleus; de dunes de l’Erg, en arrière-plan, à la fois camoufflées et criardes; avec cette couleur safran qui, au fur et à mésure que le soleil disparait, va devenir fauve puis ocre, puis rouge. Puis, plus rien. Le désert s’évanouit alors. Il ne reste plus trace de rien sauf cette sécheresse de l’air dure et cassante comme du mica et, dans la bouche, le goût du sable qui crisse sous les dents”.

[134] Essa è dovuta anche  all’azione del vento che sposta le dune e cancella le piste e alla presenza intermittente dell’acqua « Le tracé peut se déplacer d’un minute à l’autre. Les dunes disparaître d’un coup d’oeil. Les chotts changer de couleur d’un moment à l’autre. Les oasis dépérir ou devenir luxuriantes d’une année à l’autre. » (p.60)

[135] “Le récit premier est entrecoupé de digressions analeptiques à la recherche du noyau traumatique.  Ces digressions connaissent un mouvement tourbillonaire car, dans cette quête, répétitive et hésitante, le narrateur ne fait que tournoyer autour du noyau traumatique sans arriver à y acceder, se hurtant à des souvenirs-écrans.” A. Mahfoudh, op cit, p.276.

[136] cfr. §1.2.5

[137] “Le désert vous force à vous dépouiller de tout, à vous défaire de tout ce qui est en plus.(…) Ce dépouillement du désert est difficile à assumer, c’est presque la mort.” Edmond Jabès, L’écriture du désert, “Liberation”, 18-19 octobre 1997, p.21.

[138]« Dehors, à gauche , à droite et de face: le désert. Hiéroglyphes indescriptibles à l’intérieur d’un code fabuleux et poignant. » (p.16)

[139] “J’avais décidé de m’enterrer dans le Sahara. Tant qu’à faire! Il valait mieux mourir dans  ce désert qui m’a toujours fasciné parce que méchant, dur et invivable plutôt que dans une de ces villes atrophiées, surpeuplées et aggressives.” (p.50)

[140] “La secte des assassins tenait le haut du pavé et ciblait tout particulièrement les intellectuels et les citoyens les plus pauvres et les plus inoffensifs. Aveuglément! Dès que je revenais à Alger, je perdais le sens de la réalité”. (p.83)

[141]Bachelard Gaston, La terre et les  rêveries de la volonté,Essai sur l’imagination des forces, Parigi, José Corti, 1948 (tr. It. di Anna Chiara Peduzzi e Mariella Citterio, La terra e le forze, le immagini della volontà, Como, Red, 1989), pag. 74.

[142] Gaston Bachelard, La poétique de l’espace, Paris, Quadrige/PUF,1992, p.192-93

[143] M.Mathieu, “Mohammed Dib: Errances et pèlerinages”.Itineraires et contacts de cultures, Mohammed Dib, voll.21-22, Parigi, L’Harmattan., 1995, pag.104.

 

[144]cfr. Najeh Jegham, “Ecriture en création perpétuelle: entre M.Dib et A.Meddeb” Itineraires et contacts de cultures, Mohammed Dib, voll.21-22, Parigi, L’Harmattan, 1995, p. 129.

[145] Una delle sibolizzazioni del deserto come metafora di un dramma storico è quella del deserto come luogo dell’olocausto presente nell’opera di E. Jabès.

[146] “En tant que guide, je prenais tous les risques et il m’arrivait de conduire Extravagance sur des pistes interdites et non  balisées à travers le terrible désert pour essayer de me perdre” (p.113)

[147] Parliamo di impressione perché per quanto grande e smisurato il deserto reale ha comunque una finitezza.

[148]La sabbia che invade il corpo dà l’idea di soffocamento che minaccia la vita, infiltrandosi nelle parti più periferiche come le narici, j’en ai plein la bouche et les narines (p.14), per arrivare fino al petto, sede centrale della respirazione. E’ un corpo estraneo che va verso l’interno e necessita di gesti liberatori, come un colpo di tosse, per espellerla insieme alla negatività cui viene associata. L’un des passagers laisse échapper une quinte de toux. Il est imité par la plupart des autres voyageurs libérés de tout ce silence pesant et de tout ce sable infiltré dans les vêtements, les narines, la gorge, la poitrine (p.12). La sabbia come metafora della perdita del significato passa anche attraverso la negazione della sensorialità: Goût dans ma bouche du sable, du non-sens, d’une sorte de métaphysique larmoyante, du désastre dove non-sense è sia mancanza del significato che mancanza della sensorialità che lo sottrae alla vita. La frigidità e la sterilità che affliggono il protagonista trovano una corrispondenza nell'inaridimento che subisce il suo corpo per via della sabbia, che ostruisce anche nel suo corpo, come nell’oasi, i canali vitali.

[149] Questa idea di testo esteso, che si espande tra le maglie, Dib la concretizza nello spazio di enunciazione della rete, dove dagli entrelacs si schiudono all’immaginazione nuove visioni.

[150] La stessa idea di mistero è quella che nel romanzo caratterizza il deserto, soprattutto negli attributi luminosi la lumière est là, un feu où le sécret se cache (p.90) e che lega deserto, scrittura e identità in un processo continuo di velamento-disvelamento attraverso le tracce che appaiono e scompaiono.

[151] Altlal in arabo significa traccia.

[152] Cfr. cap1§2.3

[153] André Miquel, Le désert dans la poésie arabe preislamique: La Muhallaqa de Labid,   « Cahiers de Tunisie », 1975, 23, p.191-211, v.ve 8-10.

 

 

[154] Cfr. cap.3§3. Per comodità di lettura riportiamo qualche esempio. « Ce lieu qui a l’air de n’être d’aucun lieu » (p.13) « vide inviolable, insondable rayonnement blanc » (p.15) « distance qui se révèle identique à elle-même » (p.15) « étendue vacante, tout ouverte » (p.41), « espace sans commencement ni fin » (p.72); « (désert) simulant à nouveau cet espace où le regard ne sait où se pose »; « espace abstrait » (p.29) « ce vide, seule réalité certaine » (p.66) « un lieu où il n’y a lieu que de soulever de questions » (p.116); « vide inviolable »(p.115).

[155] Dib quindi conferma la ricerca continua sulla parola che già nel 1962 interrogava se stessa e il suo potere espressivo. “Comment rendre l’immensité de l’horreur sans tomber dans le piège de la banalité contenu dans toute écriture descriptive?” Postfazione di Qui se souvient de la mer, Paris, Le Seuil, 1962, p.190.

[156] La spettacolarizzazione del male fa intuire l’operato dei mass-media nelle ultime guerre che potrebbe essere confermato dal richiamo alla macchina infinita, la rete dell’araignée, nella successiva scena del male. Questo fatto sottolinea la necessità di una diversa rappresentazione del male attraverso la forza creatrice dell’immaginazione per contrastare la banalizzazione del male creato dalle immagini visive che aumentano esponenzialmente il potere del male stesso.

[157]Ibn Arabi, Fusûs al-hikam, I, a cura di A. Afifi, éd. Beyrouth, 1980, pag. 159

[158] Kun in arabo significa sia  ed è un’allusione alle parole della creazione.

[159] Najeh Jegham, op. cit., pag. 130.

[160] Questo implica la presenza di descrizioni, che non sono però da considerare hors-d’oeuvre rispetto alla narrazione – come nel romanzo realista classico- ma modello formale su cui essa viene modellata.(cfr narrazione mnemonica e paesaggio frammentato in 3.2) P. Hammon indica infatti tale condizione (“la description est plus ou moins hors-d’oeuvre au récit”) come una delle caratteristiche principali che definiscono la descrizione nel romanzo realista classico. Philippe Hamon, Qu’est-ce qu’une description? “Poétique”, n°12, 1972.

 

[161] Il concetto di “spazio omogeneo” è quello che per E.Cassirer definisce lo spazio geometrico, costituito da punti. “ La loro omogeneità [dei punti] non vuol dire altro che l’uniformità della loro struttura, che è fondata nella comunanza della loro funzione logica, della loro determinazione e significato ideale. Lo spazio omogeneo non è quindi mai lo spazio dato ma lo spazio generato per costruzione.” E. Cassiser, Filosofia delle forme simboliche/2, Firenze,La Nuova Italia, 1988, p.122.

[162] “La réalité intervient dans le corps du texte, mais n’est quasiment pas mise en intrigue.” Zohora Riad, “Rachid Boudjedra et Assia Djebar écrivent l’Algérie du temps présent”, Paysages Littéraires algériens des années 90: témoigner d’une tragédie?, Paris L’Harmattan, 1999, p.62.

[163] “Je vis ses yeux remplis de larmes. Pour la première fois depuis quelques jours je l’ai vue subjuguée par sa propre humanité. A cause de ce visage si beau et si jeune inondé par les larmes, peut-être. (...) Des larmes dues à cette réaction qui me semblait incompatible avec le caractère de Sarah”.(p.25)

[164] “Il ne faudrait pas que Sarah pense que ma minable petite affaire de tourisme est une façon camoufflée de me cacher, une sorte de fuite dans le désert. J’ai commencé à faire ce métier de guide, il y a trop longtemps. Bien avant que ne s’installe le désarroi, dans mon pays”.(p.38)

[165]Le Demantèlement viene pubblicato nel 1982 e La macération nel 1984.

[166] Questo è il caso degli stereotipi utilizzati per comporre il modo turistico di pensare ed esperire il deserto. Il turista trova la perdita del senso della realtà idyllique et envoûtant (p.38), nel deserto cerca la felicità con un atteggiamento meccanico, frettoloso, beato (p.55).

[167] Institut d’Histoire du Temps Présent. Ecrire l’histoire du temps présent. En hommage à François Bédarida, Paris, CNRS, 1993, p. 13.